domenica 14 ottobre 2012

Le rane nella pancia & altre storie

Credo che i parenti non si rendano pienamente conto del potere che hanno sui membri più piccoli della famiglia certi modi di dire, certe espressioni colorite, certi usi figurati della parola, certi inganni prospettici del linguaggio. O forse lo sanno, ma sono stuzzicati a farne comunque uso da una sorta di tenera Schadenfreude.


Ricordo un prozio che, quando avevo non più di cinque anni, riuscì ad ingannarmi per una buona mezz'ora sul numero di dita delle sue mani: le contava una volta ed erano dieci, le contava una seconda ed erano nove.
"Ehi, Giuliano", mi dicevo dietro alla piccola fronte aggrottata, "qui c'è qualcosa che non va, zio. Non mi freghi. Non mi è ben chiaro cosa, ma qui c'è del marcio!".
Dopo mezz'ora di guance rosse e squittii di disappunto, appena prima che le pupille galleggiassero in un mare di lacrime, mi svelò il trucco. Quando arrivava al decimo dito, tornava indietro senza riconsiderare il suddetto come primo della nuova serie, così al secondo conteggio risultavano nove e non dieci. Sollevato dal fatto che lo zio non avesse sacrificato un dito a quella bestia affamata della pressa, corsi in giro per la sala a fare lo stesso gioco a tutti i miei parenti. Sbagliandolo. Non avevo capito poi così bene il meccanismo, ma il fatto che fosse un trucco mi bastava. Ero venuto a conoscenza di un oscuro segreto iniziatico: il vero sapere mi rendeva capace d'ingannare le persone; e questo mi faceva sentire potentissimo.


Odiavo lavarmi i capelli. La prima volta che sentii Shampoo di Gaber, pensai che quel signore col nasone dovesse essere un deficiente.
Ricordo il mento e il collo a contatto col lavandino freddo, il suo innaturale colore rosa antico che mi avviluppava lo sguardo lacerato da rivoli d'acqua - prima fredda, poi bollente - e dalla spuma biancastra dello shampoo. Il bruciore degli occhi. Lo scrosciare fortissimo del lavandino, come il sibilo di un esercito di serpenti a sonagli infuriati. Le mani di mia madre che mi fregavano con vigore la testa. L'istinto di scappare. I lamenti, i lamenti, i lamenti. Un fracco di lamenti. A buttarne. Ero una porta allarmata pronta a scattare: Di' shampoo. Dillo se ne hai il coraggio. Dai. Ti sfido. C'ho già l'ugola che dondola come un lemure sulla liana.
Un pomeriggio probabilmente feci più capricci del solito: mi aggrappai al divano, mi rannicchiai nella posizione del riccetto infame, scappai. Il tutto condito da un coro di maialini da latte sgozzati e da dei pianti disperati che Margherita Buy è una dilettante. Mi sembrava un comportamento adeguato. Anzi, sacrosanto, cazzo. Una prova di carattere, una strenua resistenza conto il sistema oligarchico e plutocratico della famiglia capitalistica occidentale, igienocentrica e repressiva. Il cuoio capelluto è mio e me lo gestisco io! Un bambino ha bisogno dello shampoo come un pesce della bicicletta! Sarà la mia forfora che vi seppellirà!
Ma il sistema ha metodi sottili e meschini, trappole psicologiche, torture morali atte a piegare anche il più tosto dei ribelli anali. Dopo un estenuate girotondo attorno al tavolino mia madre si fermò, mise le mani attorno ai fianchi e io vidi un lampo di crudele intuizione attraversarle come un levriero gli'occhi vispi: "Guarda che se non ti lavi i capelli ti vengono i pidocchi. Anche il Nonno Angelo non si lavava mai i capelli e infatti gli son venuti i pidocchi. Guardalo adesso". Il Nonno Angelo porta un vistosissimo riporto dall'età di vent'anni.
L'argomento sembrava indistruttibile. Chi poteva assicurarmi che la serva del sistema non stesse mentendo? D'altra parte avevo davvero il coraggio di rischiare? Non volevo diventare pelato, questo è certo. Nè essere costretto a tirarmi i capelli dai lati verso il centro della testa. Rimasi fermo per un po', fissando lo sguardo furbetto di mia madre. Sapeva di aver messo un punto a segno. Ancora non ero in grado di avanzare obiezioni circa la possibilità della generazione spontanea delle creature. Dannazione. Già sentivo dei piedi piccolissimi - infilati dentro a scarpe marroni piccolissime - camminarmi sulla testa, fra i cespugli neri di capelli, in quel sottobosco untuoso e sconosciuto dove si decompongono cellule. Mi infilai le mani tra i fili di cheratina e comincia a grattare. Dovevo trovare le uova di quella genia malvagia... e sgominarle! Le mie dita invocavano il genocidio.
Mia madre scoppiò in un risolino e, con una mossa rapida dell'artiglio, mi tenagliò la spalla, sfruttando il mio momento di sbandamento.
Da quel giorno subii innumerevoli altre volte la tortura dell'acqua. Così tante da diventare ormai insensibile.


Bevo litri d'acqua. Sin da piccolo. Cascate, fiumi. Non spessissimo. Ma tanta in una volta. Son capace, senza fatica, di farmi tre bicchieri alla botta in una seduta. 
Questa specie di mania compulsiva si accentua appena prima di andare a letto e al risveglio. Mi faccio fuori tranquillo tranquillo una bottiglia d'acqua in una notte. 
Dev'essere il mio modo simbolico d'attraversare la palude stigia per addentrarmi nei luoghi d'ombra del sogno. Una sorta di pegno per la piccola morte notturna. O forse sete.
Fatto sta che mia madre e mia nonna osteggiavano questa mia usanza bislacca. Dicevano che "poi ti vengono le rane nella pancia quando ti sdrai". Io allora rimanevo combattuto tra la bottiglia e l'avvertimento. Avevo sete. Ma non volevo degli anfibi dentro allo stomaco. Mi immaginavo questi rospetti guizzanti - come li avevo visti dentro alla vasca da degli amici della nonna - mentre cercavano d'arrampicarsi lungo le pareti scivolose dei miei visceri, gracidando, gracidando, collerici e nervosi.
Se, vinto dall'impulso, non seguivo l'avvertimento e mi davo alle tazzate pazze, appena sdraiato sentivo davvero le suddette raganelle agitarsi e versicolare nella mia pancia gonfia e liscia come un gavettone. Allora mi chiedevo se il giorno dopo le avrei espulse con la cacca, o se sarei stato in grado di digerirle senza sentirne il sapore, se mi sarebbe toccato di andare all'ospedale per fare una lavanda gastrica...
oppure mi chiedevo se avrebbero continuato a saltellare tranquillamente in quella palude ombrosa, adattandosi alla situazione. Chissà se i semini d'anguria che quell'estate avevo inghiottito per non sputazzare erano già diventati una pianticella, se avevano fruttificato, cosicchè le rane avrebbero potuto cibarsene senza doversi accontentare dei semplici avanzi di ciò che inghiottivo io. 
E pensando a queste cose inquiete, le orecchie ottuse dal coro gracidante della commedia aristofanesca, percepivo il letto mutarsi in barchetta e scivolare lento sulle placide e torbide acque che circondano il mondo onirico...



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