giovedì 17 luglio 2014

Perché le scoregge fanno ridere?

Pausa sigaretta.

L'altro animatore fumatore è perso nei cristalli liquidi del suo ultimo gigantesco cellulare quando, solennemente, annuncio: "adesso mollo una scoreggia".

Mi appendo con le mani alla ringhiera, fletto le gambe, assumo l'espressione concentrata di chi sta per attuare un gesto tecnico dal coefficiente di difficoltà pari a sfilarsi i jeans con le scarpe addosso durante un tuffo carpiato da sessanta metri cercando di centrare una tazzina di caffè ricolma di orche assassine. 

Dopo alcuni interminabili secondi di suspense, esplodo in un sordo e prolungato rombo di tempesta.

Il giovine fumatore abbandona per un attimo la tintarella azzurrognola del suo touch-screen e prorompe in una sincera risata. Poi, prima di riannidarsi nella rete di socialità virtuale, lascia gocciolare una domanda, nel pomeriggio accaldato "chissà perché le scoregge fanno sempre tanto ridere...".
Già, chissà perché.

Poco filosoficamente, sapevo di sapere la risposta. Ma non gliela fornii. 
Perché?
Perché è noiosa.
Ora, come avrai intuito, tu, la sto per sciorinare, qui. 
Quindi, se ti aspetti una risposta divertente a un quesito stupido, caro mio, sappi che no. I quesiti stupidi hanno quasi sempre risposte serissime, corruccianti, deludenti. La stupidità, a contatto col gelo dell'intelletto, si rapprende in smorfia.

Le vie della comicità sono impreviste, ma se proprio non c'abbiamo così un cazzo da fare da volerne analizzare i meccanismi, scopriremo che in fondo sono sempre gli stessi, da migliaia di anni.
Non ci credete? 
Accattatevi l'incipit de "Le rane" di Aristofane:

(Entrano Dioniso e Xantia, trasportando dei bagagli)
X: La devo dire qualcuna delle solite, padrone, di quelle che fanno ridere gli spettatori?
D: Di' quello che ti pare, tranne "scoppio". Questa no, è venuta a noia.
X: E qualche altra di quelle fini?
D: Purché non sia "crepo".
X: E quella più spiritosa di tutte?
D: Coraggio! L'unica cosa che non devi dire...
X: Cioè?
D: Cioè, spostando il carico da una spalla all'altra, che te la fai sotto.
X: E neanche che con tutto questo peso se qualcuno non mi dà una mano saranno scoregge?
D: Ti prego: questa la dirai quando ho bisogno di vomitare.
X: Ma allora perché portare i bagagli, se non si fa come Frinico, Licide, Ampsia? Già in commedia non si fa altro che portare bagagli.
D: non te lo sognare neanche: tutte le volte che sento una di queste trovate esco dal teatro invecchiato di un anno.

In queste poche righe c'è già una marea di roba. Ed è roba marrone.

Si parla di sforzi fisici e di reazioni corporali correlate, ma non solo; tutta la scena è acida e meta-teatrale: una satira iper-ironica della comicità bassa e grassa dei Boldi-De Sica del tempo. 

Anticipando di circa 2400 anni i Monty Python, Aristofane dilata i tempi comici e abolisce la punch-line - la battuta finale -, slabbrando la risata in un ghigno sadico, consapevole, rivolto verso la risata stessa e i suoi semplici meccanismi. 
Ma più di tutto, questo stralcio ci rivela che le scoregge facevano già ridere nella Grecia del IV secolo a.C.
Anzi, che le scoregge erano un cliché comico, abusato ma di sicuro successo. Tanto che persino Aristofane, pur burlandosi di questo espediente, vi ricorre.

Perché, allora, le scoregge fanno così ridere, e da sempre?

Come ho già detto, i meccanismi che generano il comico sono pressapoco invariabili. La scoreggia ha l'invidiabile fortuna di tirarne in ballo due tra i più potenti: l'inversione e il contrasto.

Partiamo dal secondo.
Superata l'infanzia, genericamente, gli esseri umani acquisiscono la non secondaria competenza di governare i propri impulsi. Ciò comporta la gestione cosciente di alcune funzioni fisiologiche fra cui l'apertura e la chiusura degli sfinteri. Per un individuo adulto in salute e in pieno possesso delle proprie facoltà mentali che si trova - sua sfortuna - in un contesto sociale, il livello zero della civiltà è rappresentato probabilmente dalla capacità di porre la fatidica domanda: "scusi, dov'è il bagno?". 
Geneticamente, poi, in quanto primati superiori, probabilmente possiamo contare per la nostra sopravvivenza sulla possibilità di sviluppare una "teoria della mente" dell'altro; per cui ci raffiguriamo le altre persone come esseri dotati di intenzionalità, a loro volta capaci di raffigurarci come esseri senzienti e agenti secondo volontà. In breve: riconosciamo gli altri e ci mettiamo nei loro panni. Questo, tendenzialmente, ci fa sentire molto fighi, come specie biologica.
La scoreggia gioca il prezioso ruolo di scardinare queste odiose convinzioni, almeno per un attimo, in chi ha la fortuna di percepirne l'armonico soffio. Nulla fa più ridere di una persona rispettabile, compita, vestita in cilindro e frac, che nell'atto di chinarsi a raccogliere una tartina al caviale durante un vernissage, esplode in una fragorosa loffa.
Quando l'intestino espelle feci nebulizzate contro la nostra volontà, crolla momentaneamente il castello di carte della civiltà, mostrando la nuda realtà dei fatti: per quanto ben vestiti e colti, siamo scimmie, esseri organici soggetti alle leggi della biologia. Il rombo di un peto, squassa i piani di lettura della realtà, mescolando il culturale all'anatomico, l'ideale al triviale.
Il nostro corpo si ribella alla nostra volontà, ci rituffa nella tenebra della prima infanzia, in quell'indecifrabile turbinio di stimoli che accompagna i primi mesi della vita, in balia di forze incontrollabili e inesplicabili.
Una stanza da letto ignota, nella notte, dove non è ancora sorta la luce dell'Io a porre un qualche precario ordine. Siamo minuscoli esserini impotenti di fronte alla gigantesca manifestazione di un cosmo ostile e tiranno che ci espropria della nostra più intima dimora, noi stessi.
Ma dopo questo breve espatrio, si rientra nella regione sociale del Sé con il passaporto della vergogna. Subito subentra la burocratizzazione del fatto, che viene registrato come "figura di merda" e dunque l'oblio dello stesso tra gli archivi della memoria.
Ma quindi, perché si ride di ciò? La risata è un rilascio di tensione, uno scarico quando la situazione si fa insostenibile - tanto fisiologicamente, quanto socialmente, quanto esistenzialmente. La risata è apotropaica: allontana la morte, la paura, la vertigine e riempie d'aria il vuoto dell'abisso. Ridendo sfamiamo il mostro dell'assenza di senso.

L'inversione, invece, consiste nel ribaltamento di piani. 
Ciò che stava sopra passa sotto, ciò che stava sotto passa sopra.
Forse avete già capito, ma arriviamoci da lontano.

Il giambo è un ritmo adoperato nella metrica classica, prima negli scambi di insulti rituali durante le processioni sacre a Dioniso, e poi nella commedia. 
L'etimologia del termine è oscura, ma una possibile via, rimanda al mito di Demetra. 
La dea dell'agricoltura - inconsolabile perché l'infernale Ade aveva rapito la sua figliola Persefone - stava, luttuosa e autunnale, vagando in veste di vecchia, cercando notizie della sua cara. Giunta alla corte del re Celeo, le si para innanzi una servetta scanzonata e allegra - tale "Iambe", da cui, appunto, "giambo". Vedendo quella vecchia così affranta, Iambe decide di ribaltarle l'umore: si disegna naso e occhi sul basso ventre e, tirata su la veste, comincia a spernacchiare dal buco del culo. Demetra ride e, per un attimo, può scordarsi del lutto.
Interessante che un passo di metrica tragga il nome da una scoreggia. Ancora più interessante se si considera che la poesia giambica nasce dall'improvvisazione orale, e comunque è fatta per essere detta.
Ma, del resto, cos'è la poesia se non parola magica, pronunciata? 
E cos'è la parola se non flatus vocis, soffio della bocca, aria?...

Pensate ora al signore compito di prima, quello in frac e cilindro, che dopo la brutta figura al rinfresco, si appresta a salire sul palco per salutare e ringraziare la platea. Eccolo che si abbottona la giacca ed elegantemente scavalca l'ultimo gradino; si volta verso il pubblico, sistema il microfono, schiarisce la voce. Pare pronto a cominciare un discorso forbito, garbato, denso. 
E invece: PRAM!
Sarà lo champagne, sarà un principio di influenza intestinale... Uno scorreggione amplificato invade la sala, generando un incontenibile accesso di risa.
Nessuna parola può sconfiggere un peto ben piazzato. 

Un esempio d'autore: l'avvocato felliniano di Amarcord.

La scoreggia è il doppio diabolico della parola, proprio come il culo è l'opposto della bocca. Mentre il nostro apparato fonatorio può modulare melodie e concetti di commovente intensità, il nostro ano - se interviene al momento giusto - è capace di stonare qualsiasi aulica aspettativa, generando il benedetto e crudele riso.


Ma il ribaltamento è valido anche al contrario: chi si aspetta un bel botto e rimane estasiato da una piacevole sinfonia, non può non sganasciarsi. Su questo principio ha basato la sua fortuna le petomane , un simpatico signore francese, che durante la belle epoque deliziava gli avventori dei locali parigini infilandosi un'ocarina nel culo ed eseguendo impeccabilmente note arie.


Per finire, analizzerei un ultimo tipo di meccanismo comico, già accennato, cui il peto si presta particolarmente bene proprio in virtù della sua pressoché universale portata comica: la meta-comicità, cioè la comicità sulla comicità.
Oggi come oggi (ma in realtà anche all'epoca di Aristofane, come abbiam visto), per far ridere con un peto - a meno che esso non sia completamente spontaneo e inaspettato - ci vuole del mestiere e del concetto: bisogna conoscere bene gli strumenti e la struttura della comicità. 
Ecco dunque che il peto diventa meccanico e pubblicamente cercato, invertendo la spontaneità e l'involontarietà di cui è latore. Annunciare con disinvoltura "ora farò un peto" davanti ad amici e parenti, per poi compierne uno magistrale, è un metodo sicuro per rallegrare le vostre giornate, e quelle di chi vi sta accanto.
Può persino diventare drammatico, il peto, e superare le parole in intensità, squassando il silenzio, che è l'araldo del disagio, per raccontare con cruda compassione la terribile condizione umana in determinati contesti disastrati.
Una scoreggia neorealista, insomma, di cui vi lascio un odoroso campione.