venerdì 25 gennaio 2013

"El Baiano"


Lo chiamavano “El Baiano”.
Lo chiamavano così.
Non c'è un motivo, no: non veniva da Bahia, non era il suo cognome.
Lo chiamavano “El Baiano” e lui girava di dieci gradi la testa in direzione della voce, senza staccare lo sguardo dalle tette della cameriera. Solitamente era il postino, un uomo olivastro, grasso e sudato che ogni qual volta finiva una frase si asciugava i baffi setolosi con un grosso fazzolettone liso, forse un tempo bianco; entrava nel bar, gli faceva passare una lettera da sopra la spalla e se ne andava. Immancabilmente la lettera finiva, senza essere degnata della minima attenzione, nella spazzatura di fianco al bancone.
Che tipo, questo El Baiano.
Più raramente era il garzone del meccanico di Calle Cienfuegos a venirlo a chiamare: un ragazzetto malinconico in canottiera da basket e pantaloncini azzurri. In tal caso El Baiano alzava lo sguardo fino ad incrociare quello di Mariuchi – la cameriera – e inclinava la testa fin quasi a toccare la spalla, socchiudendo gli occhi, come a dire: “scusa Mariuchi, torno subito”, poi, facendo perno su un solo piede dello sgabello, ruotava di mezzo giro e porgeva la mano crepata all'adolescente che gli consegnava una strisciolina di carta con degli strani ghirigori a matita. La spiava con occhi attenti, annuendo meccanicamente, le labbra serrate, poi la accartocciava e se la metteva in bocca; mentre masticava, faceva scivolare una banconota di piccolo taglio nella tasca sdrucita del garzone, infine lo congedava con due leggere pacche sulla nuca date in rapida successione. Al termine del rituale, ruotava nuovamente di mezzo giro sullo sgabello e tornava a fissare con zelo le tette di Mariuchi.
Quel mattino, il bar era semi-deserto; i campesinos avevano già ripreso il loro lento zappare, le mami coi fazzoletti in testa frantumavano serie e vigorose la tapioca, i militari passeggiavano per la via principale sfoggiando le loro collane di proiettili. Solo i vecchi cigolavano pochi insulti, tra una mano e l'altra, nella penombra afosa del terrazzino di foglie di palma.
D'un tratto risuonò sulle pareti di calce viva del locale una voce virile, mangiata dal sigaro.
“El Baiano!”
L'uomo s'alzò di scatto e fece cadere lo sgabello. Guardò Mariuchi: la cameriera era immobile, stringeva un bicchiere sporco con entrambe le mani, lo sguardo terrorizzato.
“El Baiano, hombre!” tuonò di nuovo la voce “Perchè non rispondi alle mie lettere?”.
Si girò con calma, pensando “finalmente ci siamo, finalmente...”.
La morte era di fronte a lui, alta nera, vestita d'ossa. Un cigarro cubano incorniciato dall'ombra del sombrero ardeva furioso.
El Baiano rimase a fissare, per cinque secondi che parvero un lustro, quel viso che non c'era.
Avete capito, questo El Baiano? Si trova la morte di fronte e non scappa, resta fermo e la guarda in faccia!
Poi, in cinque secondi che sembrarono un fotogramma, con un balzo da puma le fu addosso e le piantò un coltello a farfalla secco secco nell'addome.
TLACK!
“Perché non so leggere”, disse.
La morte rise. Rise fragorosamente, roca. Il sigaro le cadde dalle gengive rapprese.
A quel punto successe qualcosa d'inatteso: quello spettro schifoso fece due passi in dietro, chinò leggermente il capo e se ne andò, lasciando una scia di sangue nero che puzzava di brodo di pollo e aglio rancido.
Quando fu fuori, afferrò un vecchio di quelli che giocavano a carte e lo inghiottì in un boccone, prima di allontanarsi in direzione del deserto.
Gli altri vegliardi, i pantaloni pieni di piscio, gettarono sul tavolo le carte e presero a recitare il rosario, tremanti come cani presi a calci.
Allora El Baiano si asciugò la fronte con la camicia, si girò verso Mariuchi e la guardò, prima nelle tette, poi negli occhi.
Lei annuì.
Lui fece tre passi verso il bancone, si frugò in tasca e gettò sul pianale di legno umido e segnato tre smeraldi grossi come noci.
“Per saldare il debito...”, bofonchiò.
“È troppo”, rispose Mariuchi scuotendo la testa, gli occhi remotamente tristi.
“Con il resto, comprati un vestito. Con i fiori”
“Che fiori?”
“Viole”.
Accidenti che tipo, anche con le donne!
Fatto sta che mezz'ora dopo El Baiano era in Calle Cienfuegos, nel cortile del meccanico. Sembrava non esserci nessuno in casa. Raccolse un sasso da terra. Lo gettò contro una finestra. Aspettò.
Diversi minuti dopo il garzone malinconico spalancò le imposte, guardò giù assonnato e strabuzzò gli occhi.
“El Baiano? Moreno sta dormendo e...”
“Sveglialo”.
Il ragazzetto si strinse nelle spalle da passerotto e venne ringhiottito dalla finestra.
Si sentì un rumore metallico di pentole, poi delle bestemmie irripetibili, infine lo schiocco di uno scapaccione.
Il sole cadeva diritto come un piombino nel cortile di Calle Cienfuegos quando la piccola porta di smalto azzurro scricchiolò in fuori. Ne uscì rotolando un formidabile bacarozzo di più d'un quintale, vestito con una canottiera sdrucita e gialla e un paio di bermuda color cachi.
“Buenos dias, Moreno”, disse cordialmente El Baiano, “dormito bene?”.
Il meccanico, gesticolando nervoso con le sottili zampette, spalancò le tenaglie e rispose gioviale: “Come un morto, hombre. Come un morto”.
Rimasero un poco a fissarsi, nella luce surreale del mezzodì.
Poi le antenne della blatta vibrarono intensamente, come bacchette da rabdomante. Un bagliore bianco disegnò - fulmineo - il contorno tondo della sua testa traslucida e sudata.
“L'hai uccisa, vero? Hai ucciso quella cagnabastardaneratroia?”.
El Baiano sputò per terra, in direzione del deserto.
Allora, come in preda agli spiriti del Candomble, il meccanico improvvisò una danza disarticolata, facendo ronzare le ali sottili di carta di riso e palleggiandosi quel grosso corpicione ovale da una zampa all'altra. Era indubbiamente uno spettacolo singolare: neanche El Baiano osò interromperlo.
Quando ebbe finito, esausto, cadde sul dorso convesso.
Penò non poco a rimettersi in piedi, ma rifiutò con fermezza la mano tesa del compare.
“Voglio il mio Aguaplano” disse infine l'uomo, non appena il suo meccanico di fiducia fu di nuovo in posizione verticale. Il buon Moreno assunse un'espressione seria e professionale, indicò un capannone fatiscente alla sua destra e disse: “È come nuovo amigo: l'ho tirato così lustro che sembra il dorso di un capidoglio. Vai a darci un'occhiata!”.
El Baiano non volava da nove anni, ma il suo decollo fu perfetto.
Quando fu in cielo, tritò tre angeli tra le lame dell'elica, sorvolò la Bahia de Ballenas e spense il sole con uno sputo, per vedere prima il tramonto.
“Ora che è morta”, pensò dietro alla fronte impassibile, “ora che è morta, ho tutto il tempo che voglio. Tutto il tempo per volare, e per raccontare”.



giovedì 24 gennaio 2013

Morte di un pigro

Morire all'albeggiare
nell'unico giorno
che mi sono alzato presto;
questo, con scherno,
ha disposto il destino.
Mentre le forme mondane 
rispondono radiose 
alle lallazioni del sole,
la mia vista cede 
compiacente alle lusinghe
di un letto assai più grande.
Abbandonar la vita
presto, di buon'ora,
per godersi, da morti,
una giornata intera,
e provare il rimpianto
- composto e decomposto-
per quel che non s'è fatto,
un piacere tanto simile
a quello che s'avverte
nel non far ciò che si deve
restando sotto alle coperte.



mercoledì 23 gennaio 2013

Quello professionale non è il mio profilo migliore

Oggi mi sono innamorato.
Era bionda
e il suo sguardo
mi ha dato del tu.
Era vestita di grigio
- ma non topo
più antrace -
e io avevo 
i miei curricula
in mano.
Mi ha sorriso
e poi mi ha superato
lungo il ciottolato
della via principale.
E aveva un bel culo.
Un culo grigio antracite.
E io avrei voluto
inseguirla,
toccarle una spalla,
farla girare,
sorriderle ancora
e poi darle
un curriculum vitae
con tanto di foto
e dirle:
"come puoi vedere alla voce 
competenze sociali
ho buone capacità empatiche
e di comunicazione;
inoltre so giocolare,
cucinare,
sono dotato di patente B
e ho una discreta conoscenza
del pacchetto Office...
Sono disponibile 
a svolgere qualsiasi tipo di mansione,
meglio part-time.
Il mio numero
si trova tra
le info personali:
chiamami!".
E allora lei
avrebbe sorriso
ancora, biondamente,
e sussurrato
con tono professionale:
"Le faremo sapere".


domenica 20 gennaio 2013

Mani in alto, Walter!

Si guardava le mani; la testa ottusa, immersa in un barile di latte e vesciche.
La voce danzava nella stanza come un fuoco di fosforo. Era una voce artificiale, croccava nelle orecchie come un fiocco d'avena.
"Mangiale", diceva.
"Mangiale Walter, sono buone".
Le immagini pulsavano dentro ai suoi occhi; immagini orfane, toppe senza giacche, pezze di senso. 
Quelle mani. Le mani, lì, davanti al suo naso, appendici giallastre, polpose e incredibilmente mobili; salsicce appese al camino e scosse da una costante brezza mistica. Erano sue mani? Erano...
Dio, che confusione alla testa. Minestra di nebbia.
La voce riprese a rosicchiargli il timpano, golosa come un tarlo: "Walter, non darti questo dispiacere. Te lo meriti, Walter, hai fatto bene. I Figli Incestuosi di Saturno sono contenti di come sta andando il tuo apprendistato. Mangiale..."
Si contorceva biascicando brani e sputi di preghiere insensate, i denti tanto serrati da far sanguinare le gengive.
E mentre la stanza veniva bombardata da un intermittente neon viola, il cassetto del comodino si aprì. Prima ne uscirono due rostri pelosi che si aggrapparono al bordo, poi una testa di corvo, curiosamente rasata sulla sommità, come quella di un frate.
"Sono io Walter... guardami..." - sospiro - "guardami Walter!"
Alzò il mento rigato di lacrime gelatinose.
"Non ti conosco, va via!... Per piacere..."
Fra' Corvo scosse la testa e guardò in alto, mentre il sarcasmo gli crepava il becco secondo una linea sbilenca. "Oh cielo! Via, non essere sciocco Walter, mangiale. Non mugolare, non serve a nulla. I rospi della Grande Nube di Magellano mugolano. Tu sei un rospo Walter?"
"Noooo!" sgocciolava "o" e muco dalla bocca aperta, disperato.
"E allora mangiati le mani, Walter"
"Non voglio!"
"Su, non fare il rospetto. Fin qua non hai sbagliato un colpo..."
"Ma perchéééé?"
"Perché... Perché... cos'è questa, quella roba che chiamate filosofia? Ha un sapore orrendo."
Con un balzo Fra' Corvo uscì dal cassetto e si mise a gironzolare sotto la luce beige dell'abatjour, seccato.
Sembrava Humphrey Bogart sotto ad un lampione in cerca dell'intuizione per risolvere un caso, o conquistare una pupa.
Walter, intanto, continuava a singhiozzare, rannicchiato su se stesso come un porcospino, e a battere la testa contro il tappeto persiano seguendo un ritmo cadenzato.
"Il fatto è che a noi, con tutto il rispetto, le mani umane ci fanno schifo. Sono una roba che non si può vedere: mollicce, senza peli sul palmo, morbide, rosa. Sembrano i calamari dell'alone galattico. Da brividi".
Walter era ormai immobile. Solo brevi convulsioni nervose e involontarie, ogni quattro-cinque secondi, gli percorrevano gli arti.
Fra' Corvo gli si fece vicino, scalò le sue spalle, e poi gli infilò il becco nell'orecchio.
"Walter, su, non ho tutta la notte: devo iniettare dei parassiti inguinali su Alpha Centauri. Non è esattamente una cosa divertente, te lo assicuro, per cui se riuscissimo a venirci incontro, mi alleggeriresti parecchio la giornata lavorativa. Facciamo così: se lo fai, in cambio, ti posso dare un intero blister di Belodin-125... i Figli Incestuosi di Saturno sanno essere molto generosi."
L'umano spalancò gli occhi. Venuzze rosse su sfondo lattiginoso. Le labbra vibravano incontrollate e lasciavano scivolare fuori ondate di bava.
"Un blister da venti?"
" Da venti"
Walter balzò in piedi, l'occhio folle e vitreo di una triglia appena pescata. Risucchiò la bava. Spiegò le stropicciature della camicia con entrambe le mani. Si schiarì la gola, poi parlò, con  tono solenne: "Il cielo sia sempre fulgido per i Figli Incestuosi di Saturno!"
"E con esso le stelle, Walter; e, con esso, le stelle..."

9.32 del mattino di Domenica 20-1-2013.
Introducendosi nella stanza numero 87 dell'albergo "Magellano" in Via della Bertinazza numero 27tris, la pattuglia fu accolta da uno sgradevole odore di marcio. La porta non recavansi segni di scasso e la finestra parevaci ben chiusa dall'interno.
Sul tappeto persiano insanguinato giaceva il corpo di Walter Pregadei, di anni 28, scomparso dall'abitazione che divideva con la compagna Elisa Contesso, di anni 26, il 12-1-2013. Le mani dell'uomo erano orrendamente mutilate. Nella sua bocca e tutto intorno al cadavere sono state trovate diverse falangi semi masticate. Per capire se, come ipotizziamo, le restanti siano state fagocitate, sarà necessaria l'autopsia. Probabilmente, si tratta di suicidio: la morte è sopraggiunta per dissanguamento.
Firmato, Tenente Patrizio Donati.



mercoledì 16 gennaio 2013

Francamente, me ne sciacquo.


Oggi ho finito lo shampoo che amavi. Che strano. Proprio oggi, che tu più non m'ami.
Lo shampoo più balsamo, nel flaconcino arancio - che diceva luccicando: "ricci perfetti", che diceva sornione: "sapore di more" - galleggia nella spuma tra i capelli morti, tra i miei ricci, non proprio perfetti. Galleggia svuotato, ugualmente arancione, ugualmente luccicante e perfetto nella forma sua esterna d'ingannevole tubetto. Galleggia e non s'arrende al gorgo; blatta di plastica riversa, fantasma vuoto, bolla d'aria e polietilene, ricordo d'odore, d'essenza concentrata, cremosa, emolliente.
Quanto sei durato: un mese? Qualche giorno ancora? Più o meno, a contarlo male, quanto il nostro amore.
Se quella sera non fossi uscita, se in quel locale una nostra amica, se il cocktail fosse stato più leggero, se non avessi dato le spalle a, se la musica almeno, se non ti avessi mai visto sul treno, se casa mia fosse stata a due passi, se tu non mi avessi presa sotto spalla e se io non avessi avuto rovi di more mature tra i capelli freschi e fragranti di shampoo.
È colpa mia se tua nonna ti preparava la colazione col the e la marmellata di more?
No, non credo.
La colpa è delle lancette che s'incontrano sempre, dopo ogni giro, nel mezzo, perfette. Come quella notte, alle tre, le nostre bocche. Ogni incontro obbedisce al capriccio di ritmi indipendenti, che per poco, casualmente, s'intrecciano in un valzer di millimetriche coincidenze.
Le bestie innamorate, non sanno mentire: il loro affetto ha un linguaggio chimico, un inchiostro ghiandolare, che marca la pelle dell'altro, lo spazio e l'intento. Ma segue un ciclo preciso, un ritmo astrale, come quello delle lancette: dopo poco si separano, sia i corpi che le bocche che le strade. Si spegne ogni odore.
Gli uomini, invece, mentono sui profumi, persino, figurarsi sugli amori.
Puoi cercare, se vuoi, la marca del mio odore sullo scaffale dei prodotti da bagno, al supermercato. Taccheggiare un po' di nostalgia.
Ero una torta di more, ogni mattina tra le tue lenzuola; ora galleggio sulla spuma di ricordi, flacone vuoto, spettro orfano del tuo desiderio.

Domani è un altro shampoo.




domenica 13 gennaio 2013

Parlare una donna

Un giorno, anni fa a Torino, mi è capitato di ascoltare due Wu Ming - se non sapete chi sono, innanzitutto vergogna, poi questo e poi quest'altro - parlare di tutto un po'. Ho rimosso molte cose, ma non tutto. Un tema che all'epoca mi lasciò abbastanza indifferente e che adesso mi piacerebbe riprendere in mano - e che poi è l'argomento di questo post - è quello della difficoltà di rappresentare personaggi femminili per un autore maschile. Allora non vedevo il problema: pensavo - e in parte penso tutt'ora - che gli individui nascano sì determinati biologicamente per quanto riguarda il loro sesso fisiologico, ma che nella loro essenza tutti gli esseri umani siano originariamente bisessuali o, meglio ancora, pansessuali. Insomma, si impara ad essere uomini, si impara ad essere donne, si impara ad essere altro da ciò, anche e soprattutto a partire da come la cultura in cui viviamo ci insegna ad esserlo. Perciò un autore maschio che volesse scrivere una narrazione con protagonista una donna che racconta in prima persona, dovrebbe semplicemente riconnettersi con il suo lato femminile, aldilà degli schemi comportamentali di genere che ha assimilato nel suo percorso di vita. 

Facile, quindi falso. Anzi, impreciso, grossolano.

Un'immediatezza di questo tipo è puramente romantica: dubito che un individuo adulto che si ritenga eterosessuale possa compiere un salto simile affidandosi alla sola forza della sua immaginazione. Non saprei dire se per un omosessuale possa essere più facile o meno e, considerata la complicatezza dell'argomento, preferisco evitarlo per ora.

Il nodo più grosso credo si trovi all'incrocio di questi tre fili: corpo, rappresentazione e desiderio.
Infatti credo non ci siano grossi problemi, per un maschio, nel descrivere i comportamenti di una femmina visti dal di fuori: perciò un personaggio femminile di cui si parla in terza persona, solo abbozzato sul piano psicologico, non si rivela un così ostico avversario. Si potrebbe uscire vincenti dalla tenzone in punta di penna, con il solo ausilio di una buona capacità di osservazione.

Il problema è che quello che io, scrivente maschio, conosco di una donna-fantasma-che-sta-per-diventare-il-mio-personaggio non può che essere un grumo di atteggiamenti e rappresentazioni, un collage di volti e gesti filtrati dalle convenzioni sociali che regolano l'ambiente in cui mi muovo e dove l'ho incontrata. Conoscerla più da vicino non basterebbe. Anche nell'intimità tra uomo e donna c'è una grammatica, una convenzionalità dettata dalla cultura: il fatto che ce ne si dimentichi, in quei momenti, non significa che non ci sia: è iscritta nei nostri corpi, scolpita nelle nostre anse e curve - i sospiri e i baci son la punteggiatura.
Certo, in una situazione del genere, solitamente, si arriva a conoscere qualcosa di più di una rappresentazione: c'è di mezzo un contatto di corpi, un'intesa organica, vitale, che fugge da qualsiasi recinto concettuale; ma proprio per questo, tale sintonia è troppo idiosincratica, particolare, legata ad un momento irripetibile e volatile per diventare una forma raccontabile. O meglio, ad esser proprio bravi, si può arrivare ad esprimere quel singolare e assurdo contatto da un punto di vista poetico ed oggettivo, nel senso che si esula dalla propria soggettività per far parlare quei due corpi viventi e la loro energia. Qualcosa come uno sguardo estetico e libero che vede una bellezza pura. Ma qui si sta parlando di roba difficile e troppo vicina all'inumano.

E comunque non è ancora entrato in scena l'elemento più incasinante: il desiderio.

E cioè: il mio sguardo di uomo eterosessuale, quando è diretto verso una figura femminile, deve passare attraverso le lenti del desiderio - il disgusto è da intendersi come polo opposto di questa modalità di entrare in relazione con la realtà. Ciò non succede solo quando entra in contatto con una figura femminile, chiaramente: anche quando è diretto verso una torta alla panna, ad esempio. Possiamo immaginare un marziano che, poiché mangia solo pietre rosse, sia totalmente disinteressato alla torta di panna. Ecco, lui sarebbe l'individuo più indicato per descrivere le caratteristiche oggettive della torta alla panna, perché il suo giudizio non sarebbe distorto da moti pulsionali - se non quello della pura volontà di conoscere, forse, ma questa è un'altra storia ancora.
Infatti, il modo migliore per descrivere il comportamento di una donna x, potrebbe essere quello di cominciare a descrivere un soggetto reale verso il quale non si prova interesse di alcun tipo.
Potrebbe essere una buona palestra, tuttavia questo non è il nostro obiettivo: vogliamo che il protagonista del nostro racconto non sia una donna-dal-di-fuori, puramente descrittiva, ma una donna-dal-di-dentro, una narratrice appunto.

Allora come fare?
Per cominciare mi porrei questo quesito: come percepisce il suo corpo una donna? Come si rapporta con esso quando è in una situazione d'intimità, lontana dalla necessità di riprodurre una certa immagine di sé ad uso e consumo di altre persone?
Ricordo che anni fa scrissi un racconto di questo tipo, e cominciava con la protagonista che si faceva la doccia. Ma ho giocato sporco, perché trattavasi di una donna che odiava se stessa, il suo essere donna e in particolare il proprio corpo.
Ricordo invece, sempre anni fa, che una mia amica, alzandosi dal tavolo del pub, disse: "vado un attimo in bagno"; io dopo pochi secondi mi accorsi di avere il ben noto istinto fisiologico di mingere e la seguii, ma lei non se ne accorse. Entrai nell'anticamera del bagno e, con mio stupore, notai che non si era chiusa nella toilette delle signore, bensì stava lì, in quel limbo dei generi, vicinissima allo specchio sopra al lavandino e si contemplava con attenzione - ma non eccessiva vanità - il viso. Quando mi scorse, si girò imbarazzata e disse, uscendo rapidamente dalla porta: "volevo solo guardarmi un attimo".
Le sono molto grato, per avermi permesso - suo malgrado - di rubarle un secondo del suo volto di donna mentre si stava preparando alla recita sociale.
Quello che mi chiedo è: come guardano le donne quelle parti, quei pezzi del loro stesso corpo che lo sguardo maschile ha imparato a identificare, sezionare e mercificare come oggetto di desiderio sessuale?
Si tratta di un rapporto difficile da capire per un uomo, credo.
Per essere triviali più del dovuto durante un discorso che dovrebbe essere trattato con delicatezza: così come una donna difficilmente capirà cosa significa grattarsi le palle di prima mattina, così per un uomo è molto complesso cogliere la sensazione di familiarità che, forse, intercorre tra una donna e il suo seno quando, tornata a casa la sera, si slaccia finalmente il reggipetto.

La difficoltà sta nel fatto che la rappresentazione, ciò che viene mostrato o nascosto, è frutto di una preparazione - o comunque di una consapevole trascuratezza. Noi vediamo quasi sempre corpi trattati, sorretti, depilati, profumati, dipinti, truccati, tatuati, vestiti, mascherati. Più raramente vediamo persone che si accingono a prepararsi. La cura di sé è un luogo intimo, dove sopravvive il pudore, dove lo sguardo alieno viene schermato da pareti di mattoni, di tatto e buongusto.

Sarebbe quello il punto, se dovessi raccontare una storia con le parole di una donna, da cui partirei: il momento in cui una donna si "veste da donna" e indossa anche il proprio linguaggio femminile; perché anche il linguaggio, come l'immagine, esiste solo in quanto condiviso inter-soggettivamente, in quanto ottiene una certa risposta dall'ambiente.

Probabilmente l'effetto non sarebbe che una storia narrata da un uomo vestito da donna... ma sono curioso di tentare, prima o dopo questo mio esperimento di transessualità letteraria - e non letterale, ve lo assicuro.



venerdì 4 gennaio 2013

L'uomo che uccideva i pensieri carini

L'uomo che uccideva i pensieri carini
si chiama Vincenzo
e veste spesso di viola.
Vincenzo,
non appena pensi a un gatto
lo investe.
Ma non solo:
se sei con la morosa
sotto un plaid
davanti il camino
e fuori nevica
e siete nudi
e vi carezzate
e pensi che l'ami
- dannazione -
l'ami davvero,
Vincenzo arriva
e ti scarica sui pensieri d'amore
un baule di immagini
di matrimoni finiti 
a piatti rotti
e figli infranti,
di Lorene Bobbit 
che sventolano fiere
peni recisi come bandiere,
di mantidi religiose
golose
colte da languore
nel mentre dell'atto;
e proprio mentre
i tuoi pensierini d'amore
stanno cercando di restare a galla
in quel mare di merda,
Vincenzo è lì,
ride,
e li fiocina
con tutte le acute
e meschine tattiche
che hai messo in atto
per finire sotto quel plaid
con lei.
Ma non credere,
non è finita mica qui:
Vincenzo,
se gli salta
fa di peggio,
di peggio assai.
Vincenzo se pensi
di aiutare una vecchia
ad attraversare
ti sussurra all'orecchio
di toccarle le tette
molli, rugose
e scappare,
Vincenzo se pensi
che hai voglia di gelato
accenna al fatto
letto sul giornale
che nel cono
di sicuro
si nasconde
un dito di cane
o un pene di mulo,
Vincenzo se ti stai 
facendo una seghetta
entra all'improvviso
dalla porta del bagno
vestito da corsaro
a cavallo di un cannone
urlando: "Cazza la randaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!",
Vincenzo se semplicemente
non stai pensando a niente
arriva col giornale
e ti si siede sul naso
e sfogliando tossisce
e di lì non scompare
finché non pensi, almeno,
a un ciccione col filo interdentale.
Per dire,
di Prévert
Vincenzo era il peggior nemico:
gli ha ucciso
quintali 
di uccellini
e stelle
e amori
e leoni di mare
in piedi sul triciclo.
Capisco che vi sembri
un po' rompicoglioni
'sto Vincenzo serial-killer
di penzieri boni,
ma la storia sua è molto triste
e non si puote raccontare:
dice solo che una volta
era marxista rivoluzionario
e voleva cambiare il pianeta
senza dubbio alcuno in meglio,
ma un pensiero tanto bello
lo assorbì completamente
e così non cambiò mai
un bel cazzo di niente.
Da allora, irrancidito,
Vincenzo ammazza pensierini
che reputa insulsi, buoni, carini
ma dannosi per la massa
perché fiaccano l'intento
e la volontà tutta
del popolo distratto.
Anzi, sapete che vi dico,
ormai che l'ho raccontata
la sua storia è diventata
una cosa da nulla
una poesiuola, una cazzata:
per questo già sento
i passi di Vincenzo
nel silenzio di fosforo
che mi entra nel cervello
per impiccarsi il collo
a quest'ultimo 
inutile
apostrofo
'



giovedì 3 gennaio 2013

Scorpacciarsi

Incredibile - nevvero? -
che i denti se ne stiano
proprio tutti quanti
piantati dritti in bocca,
che le unghie dondolino
sulle punte delle dita,
che le palpebre s'aprano
dove i bulbi sbocciano,
che i capelli cadano
dove i piedi passano,
che i ginocchi scricchiolino
le bili alambicchino
i nei si spostino
e i cuori soffino.
Le mani prestidigitano:
fanno riapparire in aria
pensieri che si erano 
nascosti nella testa,
i menti doppiano
i lamenti di colli taurini,
edere le barbe crescono
sulle facciate della gente,
i nasi indicano
quasi sempre
maleducatamente,
le ciglia si buttano
con desideri appesi al collo,
le orecchie son mestoli
per il brodo di pollo,
i peni sbucano
curiosi dalle mutande,
i culi fischiettando
fan finta di niente.
Il corpo è un bel mistero
un metro surreale
un grumo senza il quale
non saremmo che pensiero,
e forse a ben pensarci
non saremmo neanche quello:
chiedi un po' al tuo cervello.