giovedì 30 maggio 2013

Apologia dell'immaturità

L'individuo adulto, maturo, formato, è un soggetto completamente adattato al suo ambiente, abile nell'utilizzo dei suoi strumenti. Essi finiscono per rassomigliargli e lui per rassomigliare a loro. Ma perché questa familiarità sia possibile, l'eccezionalità deve divenire consuetudine: il pericolo è che l'orizzonte chiuso di senso in cui si muove un tale individuo, non sia più penetrabile e accogliente nei confronti di un evento imprevedibile. In questa prospettiva di “serietà” l'imprevedibile, come rischio, è calcolato – e quindi minimizzato, ridotto ad errore trascurabile – oppure semplicemente rimosso, forcluso, tenuto aldisotto del livello di percezione e coscienza. Il perturbante – cioè quel sentimento di smarrimento del sé e del mondo causato dal riaffiorare alla coscienza di qualcosa che era familiare ma che è stato rimosso in quanto possibilità sfrondata in ragione della costruzione di una realtà e di una personalità più solida e coerente – trasforma sotto gli occhi angosciati del soggetto quell'arsenale di oggetti che erano propaggini della sua personalità, pronte a rispondere ai suoi ordini e desideri, in un esercito danzante dominato da forze demoniache e incontrollabili. Questo effetto poltergeist, questa trasformazione dell'inorganico in organico, questo ribellarsi dell'ambiente ai sensi, non è che l'immagine speculare e distorta di ciò che sta accadendo al soggetto; egli, da organico, è divenuto inorganico, poiché si è disperso e nascosto negli oggetti e nei luoghi che usa e abita, tanto da lasciarsi possedere da essi, i quali ormai lo abitano e lo usano, lo muovono come un burattino.
Per questa ragione, quando il cigno nero si manifesta, chi ha abbandonato del tutto la sua immaturità, vede il mondo sprofondare in un abisso.

mercoledì 29 maggio 2013

Nel buio

Ho mangiato la mia cena
e mangiato la mia cena
e l'HO MANGIATA proprio tutta;
Ho ascoltato la storia
di Cenerentola,
e di come andò al ballo;
Mi son lavato i denti,
e ho detto le preghiere,
e me li son lavati e le ho dette bene;
E tutti quanti son passati
e mi han baciato un sacco
e tutti quanti mi hanno detto “Buona-notte”.

Così – eccomi qua nel buio da solo,
non c'è niente né nessuno da vedere qua;
Io penso a me stesso,
Io gioco con me stesso,
e nessuno sa cosa dico a me stesso;
Eccomi qua nel buio da solo,
Cosa sta per accadere?
Posso pensare a quel che mi piace pensare,
posso giocare a quel che mi piace giocare,
posso ridere di quel che mi piace ridere,
Non c'è nessuno qui oltre a me.

Sto parlando a un coniglio...
sto parlando al sole...
io penso che sono cento -
io sono uno.
Sto sdraiato in una foresta...
sto sdraiato in una caverna...
sto parlando a un drago...
sono CORAGGIOSO.
Sto sdraiato sul mio fianco sinistro...
sto sdraiato sul mio destro...
giocherò un sacco domani...
.....................................
penserò un sacco domani...
.....................................
riderò...
.....
un sacco........
.....
domani........
(Ya-ahaha-awn!)

Buona-notte”.

(Libera traduzione assai di In the dark di A. A. Milne - si, proprio quello di Winnie the Pooh)


lunedì 27 maggio 2013

La mia ragazza è scappata con un bradipo

La mia ragazza è scappata 
con un bradipo
e io non ho fatto nulla 
per fermarla:
non ho pianto,
non ho mosso un dito,
non ho detto "bah" - 
anche perché
perché mai
avrei dovuto dirlo?

La mia ragazza è scappata
con un bradipo,
se n'è andata
due mesi fa
e non è ancora
dall'altra parte della strada.
Che mi sono chiesto:
"Ma com'è che in due mesi 
di attraversamento pedonale
alla moviola - neanche sulle strisce -,
com'è che 
non passa una fiesta
una multipla
un trattore
che li schiaccia a entrambi
sti due stronzi?"
Poi mi son risposto:
"Bah".

La mia ragazza è scappata 
con un bradipo:
se ne sta lì,
a un tiro di schioppo, 
con la mano negli artigli
dell'odioso piloso.
Ogni tanto limonano,
lentissimi.
A me viene il Cristo,
ma taccio:
scrivo solo
questa poesia
tristissima, futile;
una poesia di ripicca.
Quando l'avrò finita,
spero,
avranno svoltato l'angolo
e io potrò pensare ad altro,
abbandonare il marciapiede,
seguire un corso serale di yoga,
trovarmi una donna
che non abbia l'hobby
della zoofilia.

La mia ragazza è scappata
con un bradipo:
si allontanano verso il tramonto,
impercettibilmente,
come fosse il finale 
di un film di Chaplin
al ralenty.
Lui finge di sbadigliare
e le mette un arto 
intorno al collo.
Ci impiega quarantacinque minuti.
"Bah".

Una volta giunti
perfettamente 
al centro della via,
si spogliano piano
sotto un cielo immobile
viola ubriaco,
e finalmente
fan l'amore,
l-e-n-t-i-s-s-i-m-a-m-e-n-t-e.



venerdì 24 maggio 2013

L'unno e il burocrate (una piece in tre brevissimi atti sui mali della modernità)


Personaggi

- Un unno (U)
- Un burocrate (B1)
- Un altro burocrate (B2)

Atto I


B1: Salve.
U (mostrando il biglietto col numero 88): Buongiorno.
B1: Mi dica.
U: Sono qui per consegnare una domanda di squartam...
B1: Ah, no! la blocco subito, così non spreca fiato e tempo. Noi qui siamo l'ufficio "Saccheggi, Ferro & Fuoco". Gli squartamenti sono di competenza del sotto-dipartimento "Torture".
U: Veramente, scusi, ma sul sito era indicato questo indirizzo qua.
B1: Il sito non è aggiornato: il nostro informatico è in paternità e al suo posto c'è uno stagista incapace. Non appena sarà possibile correggeremo l'imprecisione.
U: Capisco. E dove si trova il sotto-dipartimento...
B1: Via Piero Ciampi 77, appena prima della rotonda con la statua equestre di Cristiano Malgioglio. Lei entra, prende la scala destra e sale al quinto piano. Poi segua le urla.
U: Urkukan! Ma è dall'altra parte della steppa!
B1 (si stringe nelle spalle e poi urla): Ottantanoveeeeeeeeeee.

Atto II

B2: Salve.
U (mostrando il biglietto col numero 125): Buongiorno.
B2: Mi dica.
U: Vorrei consegnare una domanda di squartamento burocrati.
B2: Piano, piano... capiamoci: lei intende una domanda di "squartamento burocrate" o una domanda di "strage burocrati"? Perché nel secondo caso, dovrebbe andare alla sezione "omicidi di massa" in via Danny DeVito...
U: No, no, mi scusi. "squartamento burocrate", singolare. Uno solo.
B2: Bene, ha i dati della vittima interessata?
U: No, no, non ho preferenze. Va bene anche lei. Anzi, si, si: facciamo proprio lei.
B2: Come preferisce. Allora ho bisogno dell'attestato di unnità...
U (porgendo un foglio): Ecco.
B2: Dell'autocertificazione di immoralità con marca da bollo da quattordici euro e sessantadue centesimi...
U (porgendo un foglio bollato): Questa qua.
B2: Del certificato medico che dimostra che lei è un bruto...
U (estraendo dalla cartellina l'ennesimo documento, con le dita sozzissime): et voilà!
B2 (sfogliando le pagine del certificato, con tono professionale): Per bacco, che colesterolo!...
U: Eh, si, sa: mangio solo carne secca e grasso di bisonte.
B2: Complimenti, che tenacia. E infine, mi servirebbe la dichiarazione d'irresponsabilità, dove denuncia anche lo strumento di morte che intende utilizzare per compiere l'efferato delitto.
U: Ah, quello non c'era tra la modulistica downloadabile dal sito.
B2: Ha ragione... è che la nostra informatica è in maternità e allora...
U: Si, si, capisco. Per caso è possibile averne una copia da compilare sul momento?
B2: Certamente! Gliela stampo subito.
*Silenzio. Rumore di stampante*
U (cercando di rompere l'imbarazzo e parlando molto forte, per sovrastare il rumore della vecchia stampante): Pare che ci sia il sole.
B2 (con tono neutro): Già.
U: Avrebbe preferito morire in un giorno piovoso?
B2: Mah, sa, cosa le devo dire: la morte quando arriva, arriva...
U: E... la pagano bene per...
B2: Per morire dice?
U: Mh.
B2 (con una smorfia disillusa): Bof! La stessa paga di ogni altro straordinario. Ecco qua il modulo.
U (sorridendo): Grazie!
*U Scrive, B2 ticchetta con la penna sulla scrivania e si guarda in giro*
U: Eccoci! Controlli un po'...
B2 (aggrottando la fronte): Ah...
U: Ah cosa? Che c'è ancora?
B2: No, è che qui vedo che lei come "strumento di morte" ha segnato "spada"
U: Esattamente, e quindi?
B2: E quindi è assolutamente necessario che lei mi fornisca il documento d'idoneità dell'arma, dove si attesta il fatto che ha superato la revisione annuale. 
U: Ma cosa sta dicendo? Che c'entra la revisione della spada?
B2: Vede, uno squartamento, giuridicamente parlando, è una "pratica che prevede la divisione del corpo della vittima in più parti". Nel momento in cui lei intende utilizzare questa pratica come metodo di assassinio, non è possibile - ripeto - non-è-pos-si-bi-le che la vittima muoia per altra causa, qual ad esempio una patologia contagiosa. E, vede, una spada arrugginita può veicolare il tetano con estrema facilità... Ecco, capisce ora che se nel momento dell'autopsia venisse fuori che ero malato di tetano, e che quindi la causa del decesso potrebbe non essere lo squartamento - come legalmente registrato su tutti i documenti - , sia io che lei potremmo trovarci nella difficile situazione di dover dimostrare di non aver testimoniato il falso davanti alla legge...
U: Ma questo è folle! Mi rifiuto di dover certificare la bontà della mia spada!
B2: Signore, non si alteri, è una procedura standard... mi fornisca il documento, da bravo. Se proprio non vuole, mi basta anche solo il numero di serie.
U: Robe da matti. Senta, il numero non lo so a memoria, e il documento l'ho lasciato sul cavallo... e poi ho una scorribanda alle 17, rischierei di far tardi.
B2: Bene, vada a prenderlo, qui è aperto fino alle 16. Vedrà che faremo in tempo!
U: Ma non dovrò mica rifare tutta la fila e riprendere il numerino?
B2: Beh, questo non dipende da me... deve chiedere agli altri utenti del servizio se cortesemente...
U: MA IO LA AMMAZZO!
B2: Suvvia, non faccia lo sciocco. Segua la procedura come ogni altro barbaro: prima compila i documenti, prima mi ammazza. Cosa succederebbe se tutti ammazzassero tutti senza documenti? Senza burocrazia questo mondo sprofonderebbe nel caos... Ceeentoveeentiseeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeei!

AttoIII

B2: Salve.
U: Buongiorno (mostrando il biglietto col numero 207).
B2: Mi dica.
U: Ecco il documento d'idoneità.
B2 (alzando lo sguardo dal monitor): Ah, è lei! Ecco, bravo.
*B2 segna il numero sul certificato e pinza assieme i documenti in un plico unico, U tamburella sul davanzale dello sportello*
B2: Ha visto che a far le cose bene ci si guadagna?
U: si, si, va bene. Ora siamo a posto?
B2: Assolutamente. Un ultimo particolare: dopo lo squartamento desidera dar fuoco al mio cadavere e a tutto l'ufficio?
U: Perché no... comporta qualche ulteriore complicazione?
B2: Direi di no. Mi metta solo una firma qui.
U (firmando, impaziente): Ecco. La benzina me la fornite voi?
B2: Certo: ho una tanica proprio qui nel cassetto. Vogliamo cominciare?
U (sguainando la spada): Non vedo l'ora!

Sipario.





lunedì 20 maggio 2013

Nocciola

La donna è un mistero
un granchio dai denti d'oro
un'isola di druidi incappucciati
un vessillo strappato e sgargiante
che garrisce al centro
di una rosa dei venti
discordante
un carnivoro morbido
un viscero nero
un cerchio mai chiuso
un centro inarrivabile
un siero giallo
di bile e mascarpone
un silenzio orchestrale
una corda di violino
in attesa di vibrare
la donna davvero
mi si lasci di dirlo
è un armonico
commento
di vuoti e di pieni
al tatto sgomento
un mare danzante
tra creste d'onda
rosa di carne
boa il tuo sguardo
nocciola
a cui m'appendo
altrimenti perso
nel flusso epifanico
del tuo accadermi addosso:
amarti mi rimane
è tutto ciò che posso.


venerdì 17 maggio 2013

Bambole spezzate


Walter Benjamin in un suo breve articolo (“Giocattolo e gioco” in Critiche e recensioni, tra avanguardie e letteratura di consumo, Einaudi, Torino 1979) propone una riflessione interessante sul ruolo del giocattolo nella modernità, che probabilmente mantiene tutt'oggi una parte della sua mirabile acutezza. Egli suggerisce che l'amenità di certi giocattoli, l'eccessiva allegria dipinta con colori squillanti sui volti deformati di bambole e balocchi, non sono che una maschera grottesca, una patina dorata che nasconde il senso di colpa borghese. Tali deformazioni, simili a quelle degli specchi del lunapark, mostrano invece ciò che la proibizione fa al desiderio. 
Il giocattolo come oggetto da collezione, diviene allora immagine di una malinconia intima, di una promessa di felicità mai mantenuta, soffocata. Il collezionista antiquario (l'appassionato di vintage, diremmo oggi) è colui che cerca, col suo atto di acquisto, di salvare dall'appiattimento della mercificazione e dalla polvere dell'abbandono un oggetto che porta con sé una storia di speranze mutilate, di desideri infranti. In questo senso il giocattolo è collegato al perturbante freudiano, inteso come ritorno del familiare rimosso (e lo sanno bene gli autori di horror). La bambola vecchia, rotta, sfregiata, è l'immagine di ciò che abbiamo perso dell'infanzia; un infinito godimento potenziale che si è tradotto in una reale, idiosincratica nostalgia fatta di ritmi vitali sclerotizzatisi in abitudini, rituali e nevrosi quotidiane, in frammenti inorganici di un Sé sbrindellato. Come dice Benjamin, “se per ciascuno c'è un'immagine che fa sprofondare tutto il mondo, per molti essa si leva da una vecchia scatola di giochi”.




lunedì 13 maggio 2013

Je ne veux plus


Stanotte ho sognato che ero in Francia. E non lo so perché. Ero in Francia per un seminario, o un workshop, una conferenza. E non so di che. So che ero in macchina, e che parcheggiavo, e non so dove, e mi accorgevo che era presto - sì, per una santa volta presto - e avevo almeno dieci lunghissimi minuti per fare quel che cazzo mi pareva. E a me pareva proprio una buona idea di farmi un caffè. E allora entro in questo bistrot, dall'aria di pietra e affumicata; un locale all'antica, che direi di normandia. Ma io mai ci stetti in normandia, quindi non è affidabile come descrizione: diciamo che dovete figurarvelo come un pittoresco bistrot normanno (si dice così? O norreno? O normando? O norresco? O normo? ...Mandese?) immaginato da uno che in normandia non c'è mai stato.
E allora io ci entro e c'è quest'atmosfera di bel locale, un po' baita un po' molto francese, e questo lungo bancone a "L" e un corridoio stretto tra esso bancone e il muro bianco e grattuggioso. E dietro il bancone due signori piuttosto anziani, che mi guardano di sottecchi un po' preoccupati, un po' premurosi, molto orgogliosi del loro essere normandiani, e io penso: "porcaputtana adesso che ci penso mica che so parlare francese... ma che ci sono venuto a fare in Francia? un laboratorio, una lecture, un meeting... mah... adesso dico: un café, che tanto è internazionale". Vedo che c'è anche il figlio della coppia, un cinquantenne alto e massiccio, un po' ciccio; ma sta badando ad altri clienti dall'altra parte de bancone a "L", e allora pare brutto disturbare, anche se quello dava proprio l'impressione di uno che tre-quattro parole d'inglese le sa. E quindi mi allungo sul bancone di legno chiaro appena striato di marron nocciola e sorridendo nel modo meno falso possibile per uno che sta sorridendo di proposito ma che è mosso da effettivo sentimento di simpatia, dico al basso vecchio normancio: "Un café". Egli annuisce, si attiva tutto, sobbalza come una macchina arrugginita messa in funzione all'improvviso, bofonchia cose alla moglie con tono molto professionale, si volta e mette in moto la vecchia macchina arrugginita dell'espresso, che sobbalza tutta e vibra e bofonchia con tono molto professionale qualche goccia di bile alla tazzina. Mi guardo in giro e noto che il bancone è per la quasi totalità della sua estensione abitato da vasche di alluminio contenenti dolcetti e leccornie normanduse di ogni tipo, specie, forma, gusto e fantasia. Tante piccole leccornie zuccherine. Sto quasi sbavando. Le voglio. Due o tre da mangiare ora, le altre da portare a casa, che non si può andare in Normandia per un briefing, per un catering, per un consueling, e tornare senza neanche dei dolcetti tipici. Ti sparano se no. 
Però, puttanamerda, non so il francese. Cioè, lo so proprio male. E tipo che i due teneri rugosi vecchietti danno tanto l'impressione di parlare un qualche dialetto normese, e probabilmente il mio francese scolastico sgrammatico e dalla pronunzia pizzarola gli sembrerà il commovente tentativo di un gigantesco rospo alieno di farsi comprendere da degli abitanti terrestri. Allora comincio a riflettere nella mia testa sulla frase da dire. Devo pensarla bene, con gli accenti e i suoni. Prima pezzo a pezzo, poi unita in un solo abile e sciolto atto linguistico. Dai che ce la famo. "Allora... potere è peus, peut, peu... pë! si, l'ultima lettera tanto non la dicono mai sti francofoni, va bene pë. E poi?..." - Intanto l'anziana mi serve il caffè: la tazzina è essa stessa un delizioso pasticcino a forma di tazzina con fondo di marmellata di albicocche. Vado in brodo di giuggiole, per un attimo penso di abbandonare l'impresa, poi penso che no, vaffanculo, ne va del mio onore, e mi rimetto all'opera - "Dunque, dicevamo, pë. Poi. prendere è prendr... prendr... prendr cosa? Prima la quantità. Aucun. Eh? Come ti pare? Aucun per alcuni, ci sta. Non so se si dice spesso... chi è che ti chiede alcuni pasticcini? Un pazzo. Ma tant'è. poi, des ces... gourmandies! Si, gourmandì, con quell'accento strano a casetta da qualche parte sopra le lettere vuol dire leccornie, o qualcosa di simile. perfetto. Quindi, ricapitolando: pë prendr aucun des ces gurmandì?... mh...ma no, cazzo, il soggetto! Io... come si dice io in francese? oh, ma cazzo. Forse I? Pë i prendr?.. nah... oh merda". 

Mentre mi arrovello inutilmente, noto che dal soffitto pende una sorta di mensola su cui sono disposti tanti sacchettini di carta marron di diverse dimensioni con su scritto "gourmandies", e che ogni vasca ha delle forbicipinze rivolte verso i possibili acquirenti per pescare le delicatezze sfogliamentose in tutta tranquillità. è un fottuto self service. Si, però mo' che ho fatto sta fatica vorrei pure usarla sta frase, no? Almeno per dare l'impressione di essere un gentile rospo di Saturno.
Sono quasi per decidermi a parlare quando, dall'altra parte del bancone, sul lato breve della "L", un anzianissimo avventore dalle folte basette canute - una specie di Leo Ferré rinsecchito - sembra improvvisamente incantarsi e ripetere come un vecchio mangianastri ingolfato: "Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus - Je ne veux plus...". Lo ripete così tante volte... e in concomitanza, con la mano destra, continua ad infilare una paletta sotto una fetta di crostata ai pistacchi, per poi levarla di scatto. 
E non avrebbe desistito dalla reiterazione senza soluzione di continuità di quel pattern di gesti, se il figlio della coppia di anziani proprietari non avesse fatto il giro del bancone e, con ammirevole delicatezza, non gli avesse sfilato la paletta di mano, tranquillizzandolo.
Non ne voleva altri, non ne voleva più, non ne voleva assolutamente più. E allora perché continuava a mimare di prenderne ancora? E ancora? Perché? Perché non ne aveva mai basta, di non volerne più?
Scosso dall'evento, pago rapidamente ed esco, sorridendo alla coppia di rugosi normici.
Appena fuori dal bistrot, mentre apro una macchina che non possiedo, penso: "Je. Io, in francese, si dice Je".



venerdì 10 maggio 2013

Ma la natura è muta


Ma la natura è muta.
È una verità assoluta
che ogni natura
prenderebbe a lamentarsi
se le fosse data la parola.
Questa proposizione
ha un significato duplice.
Per primo,
Significa che la natura 
piangerebbe 
per la sua stessa afasia.
L'incapacità di parlare
è il grande dolore della natura,
e la vita dell'uomo
e la parola del poeta
sono contenute in lei
per redimerla
da questa sofferenza.
Per secondo,
quella proposizione
dice che essa 
si lamenterebbe.
Ma il lamento
è l'espressione
più indifferenziata,
impotente
della lingua,
che contiene quasi solo
il fiato sensibile;
e ovunque solo un albero 
stormisce,
echeggia insieme
un lamento.
La natura è triste perché è muta.
Ma il rovescio
di questa proposizione
scava ancora più a fondo
nell'essenza della natura:
è la tristezza della natura
che la rende muta.
Vive,
in ogni tristezza,
la più profonda tendenza
al silenzio,
e questo
è infinitamente più
che incapacità o malavoglia
di comunicare.
Ciò che è triste
si sente interamente conosciuto
dall'inconoscibile.

(Taglia e cuci da Sulla lingua di Walter Benjamin)