lunedì 20 gennaio 2014

Hey, non c'è modo di dire addio


T'amavo immersa nel mattino
tra baci tiepidi e profondi
i capelli sul cuscino
come una tempesta dorata
addormentata...
Certo,
molti si sono amati
prima di noi:
non siamo niente
- niente di nuovo;
nelle città, nelle foreste
molti sorridono come noi.
Ma ora che siamo lontani
dobbiamo provarci,
tutti e due,
i tuoi occhi sono dolci di dolore:
hey, non c'è modo di dire addio.

Non sto cercando un'altra
mentre passeggio nei miei giorni,
e anche se ho voltato l'angolo
so che i nostri passi fanno rima,
- la faranno sempre -
e sai che il mio amore va con te
così come il tuo rimane con me:
è solo il modo che cambia
come il mare
e il bagnasciuga;
ma non parliamo d'amore
e di catene
e di cose che non si possono sciogliere,
i tuoi occhi sono dolci di dolore:
hey, non c'è modo di dire addio.

T'amavo immersa nel mattino
tra baci tiepidi e profondi
i capelli sul cuscino
come una tempesta dorata
addormentata...
Certo,
molti si sono amati
prima di noi:
non siamo niente
- niente di nuovo;
nelle città, nelle foreste
molti sorridono come noi.
Ma non parliamo d'amore
e di catene
e di cose che non si possono sciogliere,
i tuoi occhi sono dolci di dolore:
hey, non c'è modo di dire addio.

(Libera traduzione di Hey, that's no way to say goodbye di Leonard Cohen)


sabato 4 gennaio 2014

Sassolini

Le storie sono onde. Risonanze circolari, amplificazione dell'incontro tra il sassolino scatologico e la placida coscienza, stagna. I corpuscoli sospesi s'agitano, s'aggrumano rametti e foglie, danzan le zanzare e i ragni come zattere nel mare. Pezzetti che ebbero cittadinanza in precedenti totalità organiche - vegetali e animali - , si dispongono secondo geometrie sottili, vapori, ordini brucianti.
La sete è il sasso che getta la mano nell'impasto di mondo e coscienza, per trarne godimento.

Una leggenda cinese vuole che l'imperatore, fermatosi un istante presso una pozza per placare l'arsura, rimase piacevolmente stupito dal sapore squisito di quell'acqua. Si accorse dunque che - verdi lucenti canoe tra le idrovore - alcune foglioline acuminate galleggiavano sulla superficie liquida. Siccome era l'Imperatore, sapeva che, per trovare la causa di un fenomeno, bisogna risalire la gerarchia che domina il contesto in cui esso appare. Così alzò la testa e vide mille occhietti bianchi che gli si schiudevano di fronte. Alti arbusti dai fiori candidi cingevano la pozza come un calderone; i loro rami, mani di strega, oscillavano morbidi arcani, tuffando talvolta le dita nella pozione.
Fu così che i giardini dell'imperatore di riempirono di Camellia sinensis, e le scodelle dei cortigiani di the.
Acqua tinta, pur sempre acqua tinta, che si fa rito e calore, centro bruciante d'incontri di storie. Ma più che acqua, perché meno limpida; più che foglia secca, perché liquida.

L'infusore a forma d'albero di plastica verde, traballa nella brocca. Rivoli bordeaux si dispiegano come gas nervino in un teatro occupato da guerriglieri ceceni. Una tisana alle mele e cannella. Il tempo d'infusione è di cinque minuti: ci vorrebbe qualcuno per chiacchierare. Il tempo d'infusione è il tempo d'infusione. se vuoi il the, devi aspettare.
Ci sono tempi che si accorciano, che si restringono come i maglioni di lana lavati per la prima volta dagli universitari fuori-sede; ad esempio, se vuoi comprare un paio di scarpe in Australia, ci metti mesi a inizio ottocento, giorni a metà novecento, secondi oggi. Questo è un tempo che ha la proprietà di accorciarsi.
La metafora più brutta che mi viene in proposito è: immaginate il tempo come un cazzo e la tecnica come un secchio di acqua gelida.
Altri tempi sono tendenzialmente identici a se stessi. il tempo d'infusione di questa tisana è di cinque minuti all'inizio dell'ottocento, cinque minuti a metà novecento, cinque minuti oggi. Ma oggi che tu sei appena scesa per le scale, e io non ti posso più parlare di ciò di cui non ti ho parlato, quei cinque minuti sono l'istante eterno in cui una squadra d'assalto irrompe nel silenzio di un teatro occupato. Mangio la tua torta, muto, e ogni boccone è una frase che ingoio.

Nel buio resto, col petto schiacciato contro il materasso e aspetto. Sento. Gli alveoli si contraggono e distendono in microspasmi tentacolari, torpidamente immersi nella nicotina. Coreografie di anemoni e coralli per verdazzurri mondi sottomarini; la danza del diaframma increspa la superficiale crosta delle lenzuola, la morbida spuma oceanica del piumone. Il mio respiro è il respiro del mare; dietro le palpebre, visioni subacquee, sirene e kraken.
Oltre la metà del letto, aspetto, immobile. Non lo vedo, non lo tocco, non lo ascolto, non lo annuso, non lo assaggio. Eppure lo percepisco, l'Altro, diffuso nel buio come un presente immenso. L'Altro, pure immobile, percepisce - lo percepisco - che lo percepisco. Il rischio è pensare all'Altro - immaginarlo - come Sé. O come un Sé verde fluorescente coi tentacoli di polipo. Percepirlo è un altro conto: percepirlo, l'Altro, non si può, se non come Sé. Ma per percepirlo, dev'essere già manifesto, come una presenza in una stanza buia.
"Che freddo..."

Nella luce lattea della mattina, il romanzo è sospeso come una lastra medica contro il bianco del muro. Quella pagina la leggo - la rileggo quella pagina - incredulo come un medico che scorge tra le costole un tumore grosso come un pompelmo. E nell'aria spettrale della casa addormentata, la porta-finestra non si vergogna di illuminare quel cancro: il pudore abbandona il sole all'alba.
Semi-sdraiato sul divano - trono della pigrizia -, seduto sugli "allora", oscillo tra le righe stampate e le palpebre serrate, abbandonato alla corrente come un cetaceo che si è spinto troppo vicino a riva.
I piedi scalzi infilati nel poncho, l'alito di cornflakes, l'odore di caffè, i cavi della Wii sparsi per la stanza - alghe portate dalla marea della sera prima.
Come un sasso in uno stagno, spezza il silenzio la timida vibrazione dello smart-phone. Sei a fare la spesa con la nonna all'A&O. Stamattina non ci vediamo. Giro la testa e supero lo schienale del divano, con sforzo epico. L'insegna A&O capeggia al centro della porzione di mondo inquadrata dalla porta-finestra, si staglia sullo sfondo lattiginoso e umido come il re di tutti i cornflakes.
Quando esci dal supermercato fammi uno squillo, ti dico, e guarda in alto. Lascio cadere la fogliolina dell'sms sullo specchio a cristalli liquidi del tuo cellulare. Torno a leggere Rayuela di Cortazar, che è un elenco dei miei tumori, a pisolare pallido e contorto sotto il cielo di calce del soffitto, protetto da costellazioni di muffa e crepe.
Trrr- trrr.
Mi risveglia il tuo sassolino digitale contro il vetro, mi avvolgo nella coperta rosa ed esco.
Piove.
Sei lì, piantata sul bordo del marciapiede come un arbusto randagio, e punti il naso al cielo da sotto il cappuccio.
La strada è un taglio che ci divide la pelle.
Dal mio lembo ti saluto con larghi gesti, come uno stupido, insensato papa rosa.
La tua bocca s'incurva sbilenca, come un ponte tibetano.
Domani. Domani la voragine del tempo ci dividerà ancora, in tutti i suoi modi meschini.
Ma non oggi; oggi l'abbiamo accorciata, per un attimo l'abbiamo affamata.

Raccontare è cucire pezze di mondo col filo del senso. Un modo per vestire la nuda vita.