Walter Benjamin in un suo breve articolo
(“Giocattolo e gioco” in Critiche e recensioni, tra
avanguardie e letteratura di consumo, Einaudi, Torino 1979)
propone una riflessione interessante sul ruolo del giocattolo nella
modernità, che probabilmente mantiene tutt'oggi una parte della
sua mirabile acutezza. Egli suggerisce che l'amenità di certi
giocattoli, l'eccessiva allegria dipinta con colori squillanti sui
volti deformati di bambole e balocchi, non sono che una maschera
grottesca, una patina dorata che nasconde il senso di colpa borghese.
Tali deformazioni, simili a quelle degli specchi del lunapark,
mostrano invece ciò che la proibizione fa al desiderio.
Il
giocattolo come oggetto da collezione, diviene allora immagine di una
malinconia intima, di una promessa di felicità mai mantenuta,
soffocata. Il collezionista antiquario (l'appassionato di vintage,
diremmo oggi) è colui che cerca, col suo atto di acquisto, di
salvare dall'appiattimento della mercificazione e dalla polvere
dell'abbandono un oggetto che porta con sé una storia di speranze
mutilate, di desideri infranti. In questo senso il giocattolo è
collegato al perturbante freudiano, inteso come ritorno del familiare
rimosso (e lo sanno bene gli autori di horror). La bambola vecchia,
rotta, sfregiata, è l'immagine di ciò che abbiamo perso
dell'infanzia; un infinito godimento potenziale che si è tradotto in
una reale, idiosincratica nostalgia fatta di ritmi vitali
sclerotizzatisi in abitudini, rituali e nevrosi quotidiane, in
frammenti inorganici di un Sé sbrindellato. Come dice Benjamin, “se
per ciascuno c'è un'immagine che fa sprofondare tutto il mondo, per
molti essa si leva da una vecchia scatola di giochi”.
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dilla