mercoledì 26 novembre 2014

Le ultime cinque carte

Le ultime cinque carte
prima di accenderle
ci pensi bene,
ma bene per davvero:
che ti si secchi
la saliva tra le fauci,
le mani ti si sfacciano
in grumi d'ossi,
scuri di pece 
ti s'aggomitolino 
i polmoni
se le sprechi.
se le sprechi.
se le sprechi.

Non s'incendia
senza un senso
un'oasi di fuoco
nel deserto.

Pagheremo 
monete di tosse
per ogni foro 
di sigaretta
che abbiamo allargato
sul filato della sera.

Quando
dondolano flaccide
ali di feltro slabbrate
dalle braccia impigiamate
quando
scendono le ghigliottine 
di sali&tabacchi
e decapitano 
dissonanze cognitive
quando
piangono affamate 
di carte sanitarie
le macchine automatiche,
allora
una rizla
diventa 
tappeto volante
e vento
e dispensatore d'incenso.

Le ultime cinque carte
rimaste
prima di accenderle
ci pensi bene.






mercoledì 8 ottobre 2014

La mia città è come le mie scarpe

La città che abito
Somiglia alle mie scarpe.
E le mie scarpe
Sono eleganti
Usate
Nere
Consumate.
La suola minaccia
Di scollarsi
Ad ogni passo,
Ma rimane
Sempre e ancora
Insieme:
Una tensione di niente
Le tiene unite.
Non le cambio
Per pigrizia,
E perché odio
Le botteghe,
O forse perché
Dovrei cambiare
Con esse
Tutto il piede.
Non vale la pena
Portarle dal ciabattino:
Le lascio seguirsi
Sui binari
Che conoscono a memoria,
Calpestando
Come possono
La ghiaia
La pioggia
La noia.
Sono mie,
Mio malgrado,
Come furono
Di mio padre
Prima di me.

La mia città
È come le mie scarpe:
Arriverà la sera
Che riuscirò
A slacciarle.


domenica 14 settembre 2014

Sedendo sul molo, nella baia


Siedo nel sole del mattino
- siederò ancora qui 
quando sarà sera -
guardo le navi dondolare
sempre più vicine
- le guarderò di nuovo dondolare
quando saranno andate
lontane.

Sono seduto sul molo,
nella baia,
osservo la marea che si ritira,
me ne sto qui seduto
sprecando tempo.
Ho lasciato la mia casa
in Georgia
diretto a Frisco Bay:
non avevo nulla 
per cui vivere
e sembrava che per il momento
nulla
volesse incrociare la mia strada.

Così, semplicemente,
me ne sono andato
a sedermi sul molo,
nella baia,
per vedere la marea
che si ritira.
E niente,
ora son qua seduto
sul molo,
nella baia,
spreco tempo.

Sembra che nulla cambierà
ogni cosa continua a restare
uguale,
non posso certo fare
ciò che dieci persone
mi dicono di fare,
perciò, senti,
penso proprio che rimarrò
uguale.

Siedo qua,
mi riposo le ossa,
e questo caos solitario
non mi vuole abbandonare,
mi tiene compagnia;
ho vagabondato per
3218,668 chilometri
solamente per fare
di questo molo casa mia.

E quindi adesso me ne sto qua,
seduto sul molo,
nella baia,
guardo la marea che si ritira,
già,
seduto qua sul molo,
nella baia,
spreco il tempo
e fischietto.

fii-I fi fifi
fu fiuu fuì 
fefe feefefe
fir-i fi-fiuuu.

(Liberissima traduzione di "Sittin' on the dock of the bay" di Otis Redding)




mercoledì 10 settembre 2014

Paura dei tuoni

Oggi al centro estivo,
Al centro tardo estivo 
che si squaglia
Come un ritornello
Nella tazza di temporali
Di settembre,
Oggi un bambino
Sedeva
Abbracciato alle sue gambe
Sulla grattugia d'asfalto,
Lontano dal campo
E dal pallone.
"Ha paura dei tuoni"
Mi dice, l'animatore
mozzicando coi denti 
i labbroni
E la parola "paura"
Incastonata tra rimbalzi
E detonazioni.

Il bimbo rannicchiato
È il più piccolo di tutti
E ha un gemello
Che corre più forte;
Un gemello brutto
Con le gambe un po' storte.

Mi siedo
Gli chiedo
Se vuole disegnare,
Lui dice che si,
Gli porto i pennarelli
E scarabocchiola
Il pullman della nazionale.
Poi m'informa
Che l'Italia fu campione
Di calcio
Del mondo
Ben 4 volte:
Nel '34, '38, '82, '06.
Così disegna stelle
In numero di quattro
Sul fianco del bus,
Stelle gialle,
A forma di Z,
Gonfie e spigolose.
Ammette di non saper disegnare stelle.
Glielo provo ad insegnare.
Niente da fare:
Solo zete spesse
Color pipì di biochetasi.

Gli dico:
Francesco,
Ora vai a giocare
Con tutti gli altri
Con tuo fratello
Con chi ti pare.
Lui non risponde,
Guarda lontano
Quel cielo di cartone,
Le azzurre saette
Come stelle malfatte
Sullo sfondo del campo
Di cemento
Dalle righe incerte
Attraversato dalle traiettorie
Zigozaghe
Di gambe giovani
Sbucciate.

Una corrida di morsi
E bolli
Sudore
E stinchi,
Una macchia di carne ansante
Incurante
Del temporale
Che sta per arrivare.

sabato 23 agosto 2014

Tristezza d'Estate

D'Estate la tristezza
dovrebbe assicurarla
la mutua.
S'è lusso d'Inverno
- e così è bene - ,
per gl'occhi sudati
è il solo modo
di non soccombere
alle pance bianche,
alle occhiaie incavate,
alle ascelle pezzate,
ai liquori zuccherati,
alle risate dei gabbiani.
Senza tristezza
mezza sopravvivenza.

Guardate le frutte
che a dispetto delle bucce
e dell'apparenza
decisamente idiota
sanno bene 
cosa fare
e quando;
guardatele
lasciarsi cadere
molli
inerti
sui terreni aspri
sui cementi cittadini,
osservatele spappolarsi
in mezze giornate di sole,
marcire dal di dentro,
regalare all'alea
il loro nudo seme,
ciò che più le preme.
Poi contate 
le grigliate
moltiplicarsi,
i fumi di carne
salire in cielo
dai barbecue
come offerte votive
agli dei miopi,
i vini versarsi
nell'erba,
mischiarsi
alle larve
e al miele marcio
zuccherino
dei frutti
già detti.
Raccogliete
con lo sguardo
le carcasse
sulle strade,
gli hamburger
di tasso
che sfrigolano 
sull'asfalto.
L'aria è densa 
di cadaverina
e fruttosio,
il respiro buio
di tabacco
e atra bile,
e tutto sembra
disgregarsi
e svanire
come un vortice
di pulviscolo
o un secchio di sabbia
versato nel cratere
del mare.
Ma mai nulla muore,
mai nulla davvero:
arriva sempre
la risata gelida 
d'Inverno
a ghiacciar 
la putrescenza,
a imbiancare
le righe
nei campi,
a conservarci
più rigidi,
più stanchi.






venerdì 15 agosto 2014

Talete

Talete di Mileto,
filosofo e sapiente,
di notte guardava
il cielo stellato,
di giorno pensava
e non faceva niente.


Una sera
dopo cena
- perché per pensare
ci va la pancia piena -
uscì all'aria aperta
col solito intento:
scrutare, contento,
la volta scoperta,
blu,
brillante
immensa.

le sfere degl'occhi
fuor dalle orbite
delle sfere celesti,
passeggiava 
fra crochi,
filari di vite
e presagi funesti;
sgocciolando bava
col naso all'insù,
non ricordava
ormai neanche più
che i piedi poggiava
sulla terra
quaggiù.

D'un tratto
la punta 
del sandalo destro
incontrò scandalo
nel tallone 
sinistro,
e quel tale
- Talete -
ruzzolò per tre metri
e cadde
- in carpiato -
sul fondo di un pozzo
profondo e coperto
di muschio e di sterco.

Nel buio strillava
con voce spaccata
e nell'acqua gelata
mulinava le gambe;
nel mentre passava
di là, per caso, Iambe,
arguta servetta Tracia,
che, vista la scena,
apostrofò con sagacia
- e ben poca pena -
quel tonto sapiente
che ancora frignava:

"O stolto Talete,
di che ti lamenti?
la luna è nel pozzo
e l'hai presa fra i denti!
Sia... chiaro,
il tuo pensiero
- è vero -
è... profondo,
ma, invero, se vuoi
conoscer del Mondo
le leggi segrete
- mio caro Talete -
impara per prime
quelle del corpo
che ti vive appresso,
se no, ti confesso,
dalle stelle allo sterco
la distanza è di un passo."

E per sincerarsi
che fosse esauriente
la lezione di vita,
Iambe, repente,
solleva la veste
e gli mostra la fica.

Talete nel pozzo
ora piange, si pente,
e si bagna le dita
pensando alle stelle
e a Vener tra quelle
la sua favorita.






giovedì 17 luglio 2014

Perché le scoregge fanno ridere?

Pausa sigaretta.

L'altro animatore fumatore è perso nei cristalli liquidi del suo ultimo gigantesco cellulare quando, solennemente, annuncio: "adesso mollo una scoreggia".

Mi appendo con le mani alla ringhiera, fletto le gambe, assumo l'espressione concentrata di chi sta per attuare un gesto tecnico dal coefficiente di difficoltà pari a sfilarsi i jeans con le scarpe addosso durante un tuffo carpiato da sessanta metri cercando di centrare una tazzina di caffè ricolma di orche assassine. 

Dopo alcuni interminabili secondi di suspense, esplodo in un sordo e prolungato rombo di tempesta.

Il giovine fumatore abbandona per un attimo la tintarella azzurrognola del suo touch-screen e prorompe in una sincera risata. Poi, prima di riannidarsi nella rete di socialità virtuale, lascia gocciolare una domanda, nel pomeriggio accaldato "chissà perché le scoregge fanno sempre tanto ridere...".
Già, chissà perché.

Poco filosoficamente, sapevo di sapere la risposta. Ma non gliela fornii. 
Perché?
Perché è noiosa.
Ora, come avrai intuito, tu, la sto per sciorinare, qui. 
Quindi, se ti aspetti una risposta divertente a un quesito stupido, caro mio, sappi che no. I quesiti stupidi hanno quasi sempre risposte serissime, corruccianti, deludenti. La stupidità, a contatto col gelo dell'intelletto, si rapprende in smorfia.

Le vie della comicità sono impreviste, ma se proprio non c'abbiamo così un cazzo da fare da volerne analizzare i meccanismi, scopriremo che in fondo sono sempre gli stessi, da migliaia di anni.
Non ci credete? 
Accattatevi l'incipit de "Le rane" di Aristofane:

(Entrano Dioniso e Xantia, trasportando dei bagagli)
X: La devo dire qualcuna delle solite, padrone, di quelle che fanno ridere gli spettatori?
D: Di' quello che ti pare, tranne "scoppio". Questa no, è venuta a noia.
X: E qualche altra di quelle fini?
D: Purché non sia "crepo".
X: E quella più spiritosa di tutte?
D: Coraggio! L'unica cosa che non devi dire...
X: Cioè?
D: Cioè, spostando il carico da una spalla all'altra, che te la fai sotto.
X: E neanche che con tutto questo peso se qualcuno non mi dà una mano saranno scoregge?
D: Ti prego: questa la dirai quando ho bisogno di vomitare.
X: Ma allora perché portare i bagagli, se non si fa come Frinico, Licide, Ampsia? Già in commedia non si fa altro che portare bagagli.
D: non te lo sognare neanche: tutte le volte che sento una di queste trovate esco dal teatro invecchiato di un anno.

In queste poche righe c'è già una marea di roba. Ed è roba marrone.

Si parla di sforzi fisici e di reazioni corporali correlate, ma non solo; tutta la scena è acida e meta-teatrale: una satira iper-ironica della comicità bassa e grassa dei Boldi-De Sica del tempo. 

Anticipando di circa 2400 anni i Monty Python, Aristofane dilata i tempi comici e abolisce la punch-line - la battuta finale -, slabbrando la risata in un ghigno sadico, consapevole, rivolto verso la risata stessa e i suoi semplici meccanismi. 
Ma più di tutto, questo stralcio ci rivela che le scoregge facevano già ridere nella Grecia del IV secolo a.C.
Anzi, che le scoregge erano un cliché comico, abusato ma di sicuro successo. Tanto che persino Aristofane, pur burlandosi di questo espediente, vi ricorre.

Perché, allora, le scoregge fanno così ridere, e da sempre?

Come ho già detto, i meccanismi che generano il comico sono pressapoco invariabili. La scoreggia ha l'invidiabile fortuna di tirarne in ballo due tra i più potenti: l'inversione e il contrasto.

Partiamo dal secondo.
Superata l'infanzia, genericamente, gli esseri umani acquisiscono la non secondaria competenza di governare i propri impulsi. Ciò comporta la gestione cosciente di alcune funzioni fisiologiche fra cui l'apertura e la chiusura degli sfinteri. Per un individuo adulto in salute e in pieno possesso delle proprie facoltà mentali che si trova - sua sfortuna - in un contesto sociale, il livello zero della civiltà è rappresentato probabilmente dalla capacità di porre la fatidica domanda: "scusi, dov'è il bagno?". 
Geneticamente, poi, in quanto primati superiori, probabilmente possiamo contare per la nostra sopravvivenza sulla possibilità di sviluppare una "teoria della mente" dell'altro; per cui ci raffiguriamo le altre persone come esseri dotati di intenzionalità, a loro volta capaci di raffigurarci come esseri senzienti e agenti secondo volontà. In breve: riconosciamo gli altri e ci mettiamo nei loro panni. Questo, tendenzialmente, ci fa sentire molto fighi, come specie biologica.
La scoreggia gioca il prezioso ruolo di scardinare queste odiose convinzioni, almeno per un attimo, in chi ha la fortuna di percepirne l'armonico soffio. Nulla fa più ridere di una persona rispettabile, compita, vestita in cilindro e frac, che nell'atto di chinarsi a raccogliere una tartina al caviale durante un vernissage, esplode in una fragorosa loffa.
Quando l'intestino espelle feci nebulizzate contro la nostra volontà, crolla momentaneamente il castello di carte della civiltà, mostrando la nuda realtà dei fatti: per quanto ben vestiti e colti, siamo scimmie, esseri organici soggetti alle leggi della biologia. Il rombo di un peto, squassa i piani di lettura della realtà, mescolando il culturale all'anatomico, l'ideale al triviale.
Il nostro corpo si ribella alla nostra volontà, ci rituffa nella tenebra della prima infanzia, in quell'indecifrabile turbinio di stimoli che accompagna i primi mesi della vita, in balia di forze incontrollabili e inesplicabili.
Una stanza da letto ignota, nella notte, dove non è ancora sorta la luce dell'Io a porre un qualche precario ordine. Siamo minuscoli esserini impotenti di fronte alla gigantesca manifestazione di un cosmo ostile e tiranno che ci espropria della nostra più intima dimora, noi stessi.
Ma dopo questo breve espatrio, si rientra nella regione sociale del Sé con il passaporto della vergogna. Subito subentra la burocratizzazione del fatto, che viene registrato come "figura di merda" e dunque l'oblio dello stesso tra gli archivi della memoria.
Ma quindi, perché si ride di ciò? La risata è un rilascio di tensione, uno scarico quando la situazione si fa insostenibile - tanto fisiologicamente, quanto socialmente, quanto esistenzialmente. La risata è apotropaica: allontana la morte, la paura, la vertigine e riempie d'aria il vuoto dell'abisso. Ridendo sfamiamo il mostro dell'assenza di senso.

L'inversione, invece, consiste nel ribaltamento di piani. 
Ciò che stava sopra passa sotto, ciò che stava sotto passa sopra.
Forse avete già capito, ma arriviamoci da lontano.

Il giambo è un ritmo adoperato nella metrica classica, prima negli scambi di insulti rituali durante le processioni sacre a Dioniso, e poi nella commedia. 
L'etimologia del termine è oscura, ma una possibile via, rimanda al mito di Demetra. 
La dea dell'agricoltura - inconsolabile perché l'infernale Ade aveva rapito la sua figliola Persefone - stava, luttuosa e autunnale, vagando in veste di vecchia, cercando notizie della sua cara. Giunta alla corte del re Celeo, le si para innanzi una servetta scanzonata e allegra - tale "Iambe", da cui, appunto, "giambo". Vedendo quella vecchia così affranta, Iambe decide di ribaltarle l'umore: si disegna naso e occhi sul basso ventre e, tirata su la veste, comincia a spernacchiare dal buco del culo. Demetra ride e, per un attimo, può scordarsi del lutto.
Interessante che un passo di metrica tragga il nome da una scoreggia. Ancora più interessante se si considera che la poesia giambica nasce dall'improvvisazione orale, e comunque è fatta per essere detta.
Ma, del resto, cos'è la poesia se non parola magica, pronunciata? 
E cos'è la parola se non flatus vocis, soffio della bocca, aria?...

Pensate ora al signore compito di prima, quello in frac e cilindro, che dopo la brutta figura al rinfresco, si appresta a salire sul palco per salutare e ringraziare la platea. Eccolo che si abbottona la giacca ed elegantemente scavalca l'ultimo gradino; si volta verso il pubblico, sistema il microfono, schiarisce la voce. Pare pronto a cominciare un discorso forbito, garbato, denso. 
E invece: PRAM!
Sarà lo champagne, sarà un principio di influenza intestinale... Uno scorreggione amplificato invade la sala, generando un incontenibile accesso di risa.
Nessuna parola può sconfiggere un peto ben piazzato. 

Un esempio d'autore: l'avvocato felliniano di Amarcord.

La scoreggia è il doppio diabolico della parola, proprio come il culo è l'opposto della bocca. Mentre il nostro apparato fonatorio può modulare melodie e concetti di commovente intensità, il nostro ano - se interviene al momento giusto - è capace di stonare qualsiasi aulica aspettativa, generando il benedetto e crudele riso.


Ma il ribaltamento è valido anche al contrario: chi si aspetta un bel botto e rimane estasiato da una piacevole sinfonia, non può non sganasciarsi. Su questo principio ha basato la sua fortuna le petomane , un simpatico signore francese, che durante la belle epoque deliziava gli avventori dei locali parigini infilandosi un'ocarina nel culo ed eseguendo impeccabilmente note arie.


Per finire, analizzerei un ultimo tipo di meccanismo comico, già accennato, cui il peto si presta particolarmente bene proprio in virtù della sua pressoché universale portata comica: la meta-comicità, cioè la comicità sulla comicità.
Oggi come oggi (ma in realtà anche all'epoca di Aristofane, come abbiam visto), per far ridere con un peto - a meno che esso non sia completamente spontaneo e inaspettato - ci vuole del mestiere e del concetto: bisogna conoscere bene gli strumenti e la struttura della comicità. 
Ecco dunque che il peto diventa meccanico e pubblicamente cercato, invertendo la spontaneità e l'involontarietà di cui è latore. Annunciare con disinvoltura "ora farò un peto" davanti ad amici e parenti, per poi compierne uno magistrale, è un metodo sicuro per rallegrare le vostre giornate, e quelle di chi vi sta accanto.
Può persino diventare drammatico, il peto, e superare le parole in intensità, squassando il silenzio, che è l'araldo del disagio, per raccontare con cruda compassione la terribile condizione umana in determinati contesti disastrati.
Una scoreggia neorealista, insomma, di cui vi lascio un odoroso campione.



domenica 8 giugno 2014

Tra le tette dell'Estate

L'Estate è una rappresentante
di frutta bocca a bocca:
s'intrufola in casa
nelle buste della spesa
e s'insedia nella cesta,
nel piatto, nella dispensa,
sciorinando il suo campionario
- ragguardevole, davvero, campionario -
di dolci, tonde robe
dal rosso all'arancione.

Per quanto mi riguarda
la regina madre
di tutti i fottuti frutti
è la pesca tabacchiera,
anche detta
platicarpa,
o nettarina piatta
o meglio ancora
saturnina:
malinconica razza
di pesca domestica
dal caratteristico aspetto
di supertele sgonfio,
gusto robustamente zuccherino,
consistenza vellutata fuori
e sbrodolona dentro.

La Saturnina
si approccia
rigorosamente così:
innanzitutto
si spezza a metà
con gesto eucaristico,
poi si butta in bocca,
 - per prima e subito -
la metà senza nocciolo;
ora, con la mano libera, 
puoi togliere il nocciolo.
Infine ci si gode l'ultima metà,
senza fretta.

Ottima da mangiare
pensando sia il cervello
appena estratto
dalla testa di cazzo
del tuo peggior nemico.

Se la metti in macedonia
insieme a robe plebee
come mele e anguria,
evita di parlami,
Coglione.
Grazie.

Quando la mangio
e non ho nemici
da bestemmiare,
mi sembra come
d'infilare la faccia
tra le tette sudate
e giganti dell'Estate
e fare con le labbra
sulla pelle aranciorosa
tutti i versi che so fare,
tra cui l'aeroplano
che sorvola il mare.


lunedì 14 aprile 2014

Tra le cose mie favorite

Tra le cose 
mie favorite,
spicca il fermarmi
al passaggio di livello
aspettando
- ben aperto
il finestrino 
della mente -
l'arrivo 
con passo gigante
del convoglio
d'ottone pulsante.
C'è prima 
come un fremere
di pioggia
di bacchette,
poscia bassi odori
d'asfalti sudati
frammisti
a frusciar di piatti
affumicati
e imprevedibili tuoni
di ciarlatani
charlestoni.
Ecchinfine
annunciato 
da fughe di code
di tasti dolenti
pestati da diti
di stolti sapienti,
appare 
-al contempo 
fonocometa ilare
e mesto arcivescovo -
Giovanni Trenofresco:
locomotivo di respiro
e tasti pistoni,
incantatore di pitoni,
dipana spiriti
e demoni ctoni.

Ed è 
come Efesto
infiammato
dal mantice
di Elio,
ladro ermetico
d'aliti morti,
succhiatore di flegma
e di pneuma:
ricompone
sotto al timpano
del tempio cranico
la pulsazione
del diaframma cosmico.

Il tempo
d'un inchino profondo
al punto
da rovesciare il cerebro
oltre il bordo
dello scheletro,
ed ecco,
il silenzio
- uccello pigro -
s'impadronisce
della corrente:
tutto svanisce,
la realtà riemerge
prepotente.





domenica 13 aprile 2014

Mio nonno cambia colore

Mio nonno
in primavera
cambia colore:
l'anno passato
viola,
quest'anno
giallo.

Non sto scherzando.
Non ho capito solo
se sia una scelta oculata,
in coordinato
con le collezioni
primavera-estate.
Mio nonno
cambia colore,
e noi, preoccupati
lo portiamo in ospedale;
ma lui no
non ne fa un dramma.
Solo ogni tanto
si lamenta
del pollo
dei dottori,
mai dei prelievi,
raramente degli esami:
che io sappia
gli hanno infilato
sonde
su per qualsiasi orifizio.
Lui zitto,
non s'oppone 
alla fibra ottica,
si preoccupa

solo 

se non caga.

Quando lo vai a trovare
parla male 
dei compagni di camera,
senza cattiveria:
quello russa,
quello bestemmia
mentre sogna,
quello tira
le cuoia
e mangia paté.


Mio nonno

sta in ospedale
come starebbe 
in un tram,
in ascensore
o sotto un ombrellone:
parla con chi capita,
paziente,
attende
si lamenta solo
se la gente
gli pesta i calli,
fa la deficiente.
Scarnifica
la sua ala di pollo
lentamente,
e lentamente
condisce l'insalata,
sposta le pietanziere,
lentamente,
e lentamente
beve l'acqua.
Ha i gesti posati,
ben fatti,
di chi pensa
a una roba 
per volta;
ha una memoria
corporea
invidiabile,
un senso del tempo
siculo
attento
di chi i pomodori 
li fa seccare al sole
sui coppi rotti.
Mio nonno 
fa la cacca tutti i giorni
alla stessa ora
da ottant'anni.
Mio nonno
ha un ordine rituale
quotidiano
immodificabile:
basta una battuta
per girare il verso al mondo
e adattarlo a quel che crede
e adattarsi a quel che vede.
La sua vita 
è un elenco
di impercettibili variazioni
giornaliere.

Figurarsi
che gliene frega a lui
se cambia colore.

Quando ce ne andiamo
Mia nonna gli chiede
se ha bisogno
di qualcosa,
lui sporge il labbro
scuote il capo
poi s'accende
e dice:
"un po' di cotone".
Infine apre il cassetto
e mostra al suo interno
quattrocinque
palle arancioni:
"e dì alla Gabry
che non mi porti più arance
che non sono in galera".
Uscendo
dalla casa del lamento
penso
che l'anno che viene
me lo aspetto
di vederlo verde
a pois blu.