lunedì 16 dicembre 2013

La macchia nel parco

Sulla strada che porta al parco
c'è una macchia d'olio
che sembra un brontosauro.
O un diplodoco.
Nel suo regno bidimensionale
tutto funziona diverso
non saprei dire
se bene o male
o peggio.
Fatto sta
che lui non sa
di essere estinto,
perciò barrisce
dal cemento
ad ogni suola
di bambino
che lo calpesta,
ad ogni lombrico
che lo attraversa
- s'è messo in testa
di essere il re
della foresta.
Ma quando il sole
dà il bacio della notte
sulle fronde
delle betulle,
le mamme spingono via
i passeggini, 
le badanti russe
le carrozzine,
e l'erba del parco
- non vista -
cresce
nel silenzio 
ultra-normale
dello spazio
tridimensionale...
Allora il brontosauro
d'olio di motore
diventa l'ombra autentica
di una paura solida
che sopravvive nel cuore
più umido e nero
del parco buio,
appena aldilà
delle sirene delle ambulanze
e dei neon delle pizzerie.
E barrisce ai bambini
sprofondati nei piumoni
dalla sua jungla giurassica
di rametti spezzati
e mozziconi calpestati.


mercoledì 11 dicembre 2013

Una mattina, andando nell'aria di vetro


Stamattina mi sono alzato presto e ho fatto colazione con yogurt e cereali.

La tavola era apparecchiata con una tovaglia a quadri verdi e bianchi.

I cereali cosparsi di cioccolato fuso. Fondente.
Ho una madre che si sveglia presto. Più presto. 
E mi vuole bene. Più bene.
Stamattina mi sono svegliato presto e sono andato a lavorare.
Ho scrostato il vetro della macchina dalla brina spessa e mi sono sentito come una nave rompighiaccio fatta di muscoli e fiato condensato. Una nave che trasporta neuroni migranti da un luogo pensato come casa a un altro, misterioso. Poi ho riposto nel cruscotto la paletta che mi ha donato mio padre e son partito.
C'è un punto - appena usciti dalla stradina secondaria dove abito - , c'è un punto in cui il sole, pugile, buca la guardia dei tetti e colpisce con un jab di luce la strada. Un bagliore immenso che si divora alcuni metri e alcuni secondi e alcuni pensieri. I miei occhi tremanti sono piccoli marsupiali alla base della catena alimentare; si rifugiano nelle tane degli occhi, tra le ciglia di sottobosco, spaventati da quel gigantesco predatore bianco e rapace. Un buco nella realtà, nulla più. 
Le strade di mattina sono regolate da segnaletiche di bestemmie, denti digrignati e fiati di caffè. Scolopendre lucenti sulla statale, ticchettare di frecce e polpastrelli sui volanti. Dita in bocca, dita nel naso, dita ferocemente erte contro gli ineffabili coglioni che s'innestano senza precedenza - come noi faremo tra due svincoli, ma con ragione.
Le strade di mattina sono belle come luoghi di battaglie campali.
Stamattina poi, la coda è più coda del solito; il ponte della tangenziale, duodeno che unisce la periferia a Biella città, è particolarmente stitico. A stento me ne trascino fuori, strisciando sui copertoni.
Da lontano intravedo, alla rotonda del Mercatone Uno, striscioni e megafoni, lampeggianti.
La rivoluzione.
Tu ti svegli una mattina, convinto di andare a lavorare - quasi grato - e invece no. La rivoluzione.
A dire il vero c'era già ieri, la rivoluzione. Sempre nello stesso punto: la rivoluzione è sedentaria.
E io ci sono già passato in mezzo. Ma la mattina le strade sono belle come sto cazzo, e le scolopendre e le bestemmie, e mi sono distratto. A fare il lirico. Ci si distrae. Ho fatto la stessa strada di sempre, senza pensare, e sono capitato di nuovo nella rivoluzione. Ben mi sta.
Un uomo con dei volantini passa tra le macchine. Due ragazze, infreddolite, stanno nel prato, sotto ad un gazebo. Davanti a loro un lenzuolo con la scritta "Abbattiamo la Kasta!!!". Sbuffano aliti bianchi come brina da sotto le sciarpe di lana, picchiano la terra con la punta delle Vans per il freddo. 
La lentezza induce a pensare. Le testuggini sono rettili socratici. Così penso. Penso che non è offrendo un posto di lavoro mal pagato per sei mesi a una trentina di neolaureati che la disoccupazione giovanile svaporerà come vampiro al sole. Penso che sto prendendo soldi da una provincia che è fallita. Penso al fatto che il mio stage si pone come obiettivo quello di rendermi il più possibile simile a uno scarrafone kafkiano. Di quelli da ufficio. Che scappano tra le carte e poi si spiaccicano tra un faldone di dati e un registro delle attività di formazione del 2009. 
Poi penso a Renzi. Poi a Crozza che imita la voce di Renzi. Poi al cartonato di Civati, l'altra sera, all'Otto.
Poi penso che sarebbe facile dare la colpa a un volto, a una parola, a una figura che si stacca dallo sfondo.
Gli occhi faticano, faticano sempre a cogliere lo sfondo. Forse abbiamo il cervello troppo spesso in controluce.
Ora l'uomo coi volantini è di fronte a me. L'ultimo difensore a separarmi dall'entrata del tunnel. Nella mano destra impugna un megafono. Lo alza, ci parla dentro. Le sue parole attraversano l'aria ghiacciata del mattino, si schiantano contro il vetro della mia honda, volant.
Io, dentro, l'abitacolo, astronauta, pisello, nel, baccello, taccio, sordo.
Un disco bellissimo e spietatamente nevoso fruscia fuori dalle casse. 65 days of statics. Silent running, forse. Me l'ha regalato lo Zeta.
Ci guardiamo negli occhi per qualche stupido secondo di naftalina. I suoi sono azzurri e hanno visto una ventina d'anni più dei miei.
Mi sento pesante, lento, goffo, armato di un vocabolario grigio, incapace di acchiappare come uno zaino protonico lo spettro del reale. Sono spaventato dalla possibilità di relazionarmi attraverso la parola con un altro sapiens: quasi sempre finisce a colpi di selce scheggiata. Siamo caricature, uno per l'altro. Abbiamo già una storia pronta da appenderci a vicenda sul naso, come una palla di Natale.
Bisbiglia ancora qualcosa nella coclea del megafono, poi allunga il collo, interrogativo, come a chiedermi una risposta. Io scuoto la testa. 
Un sorriso amaramente cortese gli taglia la pelle sotto al naso. Si scosta di lato, mi fa cenno di passare. Mollo la frizione, accelero, scompaio.

Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. 
Non c'è peggior muto di chi parla al megafono.