martedì 27 agosto 2013

Omaggio a un cane

Bambino, ero. Bambino, ricordo. Occhi grandi, gambe corte, ego smisurato, immaginazione irrequieta: sapete, no? Tutti son stati bambini, chi più chi meno. E il periodo preciso dirvi non so; poteva essere quell’era della vita in cui di anni ne conti soltanto sulle dita delle mani, sicchè i piedi rimangono liberi e ancora puoi correre in lungo e in largo, dove ti garba.
Lasciata alle spalle la casa nuova dove pochi mesi addietro - a tradimento - la famiglia mia aveva traslocato, mi facevo trascinare sotto il sole frastagliato d’inizio estate da un batuffolo di pelo nero, nuovo acquisto di quell’anno. Preso forse per placare il mio capriccio costante, la mia necessità d’un compagno di giochi, paziente e sommeso, pronto a darmela vinta, Birillo si rivelò una faccenda un po’ più complessa; che, sì, il cucciolo di cane ignorava l’arte del sillabare, ma anch’esso aveva pretesa di fanciullezza. E allora occhi grandi, gambe corte, ego smisurato e immaginazione irrequieta valevano anche per quella creaturina, che domare si rivelò impresa impossibile e fonte di frustrazione perenne.
“No! Birillo, vieni qui! No pipì lì, no! No! Birillo...”
Inutile. Un arco biondo già disegnava l’aria tra pene e muretto grigio. Poco pudore, poco rispetto dell’altrui proprietà. Bisognava educarlo.
Ma il caldo seccava le parole in gola, lasciava poltiglia acida da deglutire o sputare, e gl’occhi incerti sfruttavan le ciglia lunghe per difendersi dal bagliore accecante dell’estate cittadina. Non era poi così grave, si poteva soprassedere. Marachelle di bambino. Marachelle.
Capita talvolta di sentir leggero il capo e sentir danzare intorno rumori come di ronzii - ne parlo da poco esperto, badate, che la mia pressione non è mai scesa sotto ai limiti di guardia . Allora la vista si fa sfocata e piccoli pallini di luce pulsano lungo l’iride, come api colorate o disturbi catodici. Ammasso di elettrodomestici difettosi: sempre questa l’impressione che mi ha dato il corpo.
Il caldo. Il caldo, sicuro - si dice un adulto - ho mangiato poco, è logico. Non c’è problema - suggerirebbe la mamma prudente, dolcemente vestita nel suo sorriso, versando un bicchiere d’acqua fresca e stemperandovi, accurata, una bustina di zucchero bruno. Ma fuori casa, un bambino, si che sa... pensa: magari son drogato, magari quella bustina di figurine che ho raccolto ieri da per terra... ma che mi viene in mente mai, mi starò sbagliando; basta stringere forte gl’occhi, un po’ di pressione... ecco così, abbassar la testa quel tanto...
Lampo di buio.
Danza di fate colorate, elettriche, dionisiache baccanti dell’iride divorano l’immagine e ne risputano a piacere contorni inventati, forme inusitate. Alice nel paese delle meraviglie.
Un fischio come di flauto dall’aggregato di mattoni arancioni di fronte alle casette a schiera: Pan tra i muratori dirige i lavori del cantiere con festosa disciplina. Il cane bianco della casa accanto, incomprensibilmente eretto su due zampe, persiste nel ripetere con foga “cespuglio” nell’idioma degl’anglosassoni - forse, veggente, voleva svelare al mondo o quanto meno a me il nome del prossimo presidente degli States. Un re alato, nell’etere azzurro sopra al mio capo, urla a squarcia gola la prima lettera dell’alfabeto, come a ricordarmi ch’io sono la zeta - nonostante ancora ignorassi il segreto dell’Ibis, sacro Toth d’egitto, Ermete mio amor. Birillo, nel mentre, si cimenta in una titanica, eterna lotta con la verde e grassa mantide bigotta. Lupo d’Odino, fiuta la sorgente.
Lampo di luce.
Una rete di rame mi divideva dal giardino che stava per esser mutato nell’ennesima villetta. Ronzio sommesso. Alzo lo sguardo, mi spavento. Sgomento, verde sgomento.
Un animale mai visto, dalle fattezze di piccolo elicottero, stava sospeso ad un palmo dal mio viso.
Corpo allungato dall’aspetto tubiforme, ali lunghe e sottili, trasparenti, vibranti, testa formata da due belle sfere brulicanti d’occhi, quasi un culo.
Rimango lì, atterrito. Birillo, come di consueto, non dice nulla.
“S-sei velenoso?”, domando trepido.
Non risponde.
Continua a fare su e giù di pochi centimetri, come fosse attaccato ad un elastico trasparente.
Mi fissa, mi mette in soggezione.
Poi si stufa - forse mi trova carente di stimoli d’interesse - e si posa sulla cima della rete di rame, come un Karate-Kid in equilibrio sul suo paletto. Fisso. Immobile.
Giro lo sguardo, prima a destra, poi a sinistra: una lunghissima fila di esseri simili al primo, alteri e superbi, è posata sulla sommità dei fili della grata.
Mi guardano? Non mi guardano? Migliaia di occhietti fissi nel vuoto, laconici.
Mi sento giudicato. L’atmosfera è afosa, kafkiana; sembra un’aula di tribunale.
Pare che da un momento all’altro una di quelle strane divinità mi debba indicare con la zampetta sottile e flessuosa, come a dare l’ordine all’intero pantheon di scatenare la sua ira funesta su di me.
Retrocedo di un passo.
Lancio uno sguardo al soldato Birillo per saggiarne lo stato di forma: occhio vispo, gamba agile e pronta; non pare aver riportato gravi danni durante l’incontro con il mostro-mantide, che giace schiacciato al suolo in una poltiglia verdastra e si lascia andare agl’ultimi scatti nervosi di zampa, come son soliti gl’insetti prima di morire.
Un cenno del capo sancisce un tacito accordo tra bambino-uomo e bambino-cane.
Un’ultima occhiata timida agl’immortali re del tempio di rame, una preghiera sommessa affinché le statue insettiformi non mutino in mostri viventi carnivori e... via!
Guizzar di muscoli giovani; i due inesperti ma rapidi eroi imboccano di slancio il sentiero di piastrelle rosa che li riporterà al castello tra le braccia accoglienti di re e consorte.





giovedì 1 agosto 2013

La passeggiata di Picasso


Su di un piatto ben rotondo di reale porcellana
posa una mela;
faccia a faccia si trova
un pittore della realtà
che prova, vanamente, a dipingere
la mela
tale quale è
ma
mica si lascia fare, lei,
la mela,
ha la sua da dire, lei,
e ben più d'uno scherzo tira fuori dal suo sacco di mela,
la mela.
Ed eccola che gira
nel suo piatto reale,
sorniona, su se stessa
dolcemente, senza darlo a vedere
e come un Marat che si mette l'armatura
perché per forza lo voglion ritrarre,
la mela si traveste da bel frutto travestito.
Ed è allora 
che il pittore della realtà
comincia a realizzar
che tutte le apparenze della mela sono contro di lui
e
come un miserabile accattone
come il povero bisognoso che si trova
all'improvviso in balia 
di non importa quale associazione benificente e caritatevole 
e raccapricciante 
di beneficenza, di carità 
e raccapriccevolezza
il miserabile pittore della realtà
si trova all'improvviso ad esser triste preda
di un'innumerabile folla di associazioni d'idee,
e la mela girando evoca il melo
il paradiso terrestre e Eva e poi Adamo
l'innaffiatoio e i pomi d'ottone delle ringhiere
il Canada, le Esperidi, la Normandia, la renetta
e l'appiola
il Serpente ubriaco di sidro e la Sala della Mela-corda
e il peccato originale
e le origini dell'arte
e la Svizzera con quel pirla di Guglielmo Tell
e anche Isaac Newton
pluripremiato all'esposizione
della gravitazione universale...
e il pittore, stordito, perde di vista la sua modella
e s'addorme.
È allora che Picasso
- che passava di là per caso come passa ovunque,
manco fosse a casa sua -
vede la mela e il piatto e il pittore addormentato.
"Che idea, di dipingere una mela!"
disse Picasso
e Picasso mangia la mela
e la mela dice: "Merci!"
e Picasso rompe il piatto
e se ne va sorridendo
e il pittore, strappato ai suoi sogni
come un dente,
si ritrova tutto solo davanti alla sua tavola incompiuta
con, sputati tra le sue stoviglie rotte,
i terrificanti semi della realtà.

(Molto libera traduzione assai di Promenade de Picasso di J. J, Prévert)