Voglio scrivere un romanzo introspettivo-thriller che tratti le
problematiche di genere.
Il protagonista sarà quest'uomo che sublima la sua pulsione di
morte e riesce a sopportare tutte le frustrazioni della vita
quotidiana solo mangiandosi le unghie dei piedi.
Tuttavia, dopo una vita monotona e insapore come una vellutata di
porri, una bella mattina, nell'anno dei suoi sessantatrè, si
sveglia e scopre che la sua flessibilità è in netta
diminuzione. Tanto da non permettergli più di mangiarsi le unghie
dei piedi. Preoccupato, il nostro, si reca dal Medico delle Ossa -un
personaggio enigmatico che indossa sempre un cinturone pelvico
giraffato e imita spesso la voce di Alberto Sordi- il quale lo mette
al corrente del fatto che una particolare forma reumatica di origine
micotica gli sta corrodendo le teste dei femori.
Per l'oncofago -che chiameremo Guglielmo Reich, triestino di
origine, solo per limitare le ripetizioni e l'uso dei pronomi e
rendere un po' più scorrevole il testo, ma che dovrebbe comunque e
sempre essere nominato come: l'Oncofago-, per l'Oncofago, dicevamo,
questo è un brutto colpo. Ogni mattina vede le sue appendici
inferiori farsi sempre di un poco più lontane.
Non è vita quella, cazzo.
Seguono quattro o cinque capitoli molto lenti e poco
credibili sul piano della ricostruzione narrativa della malattia
mentale in cui il nostro, l'Oncofago, scappa dalla società civile e
si barrica nel suo appartamento vivendo nella continua paranoia
causata dai minimi rumori provenienti dal piano di sopra, dalle
tubature, dalla strada, dalla notte. Sarà in questo clima ammorbante
che il triestino - o meglio, l'Oncofago - in seguito alle prime crisi
di delirio - come verrà spiegato più tardi, mentre qui viene solo lasciato
presagire - maturerà la decisione di non tagliarsi mai più le
unghie dei piedi.
Sono passati otto anni dai fatti narrati. Una figura intabarrata
in un impermeabile bianco, col volto coperto da vistosi occhiali da
sole, sta salendo con andatura zoppicante le scale che portano allo
studio del Dottore delle Ossa. Una mano rugosa, smunta, con
molli rughe blu petrolio in rilievo, gira la maniglia della porta.
Il dottore è lì, seduto dietro la scrivania; lo stava
aspettando.
"Signor Reich!" dice, "...o forse dovremmo
chiamarla l'Oncofago?".
L'Oncofago si sfila gli occhiali da sole e mostra un volto
mangiato da rughe profonde, di un pallore latteo. Ma è la
descrizione minuziosa dei suoi occhi grigio/cerulei - privi di
qualsiasi sfumatura umana eppure vibranti di un carsico orrore - a
lasciare agghiacciato il lettore. La descrizione di quegli occhi e di
tutti loro impercettibili tremori riempe il capitolo sino alla
fine.
Il successivo è incentrato sulla figura ambigua e sfuggente del
Medico delle Ossa, che appare cambiato e - se possibile - ancora più
eccentrico. Oltre al cinturone pelvico giraffato ora porta anche un
fez decorato con la medesima fantasia. Parla lungamente all'Oncofago
della sua malattia reumatica, analizzandone minuziosamente le cause
ambientali, genetiche, comportamentali... da come parla della
patologia, tuttavia, appare chiaro che egli ha capito quali mostruose
trasformazioni essa ha operato nella mente deviata del suo paziente,
e la sua fine diagnosi sembra sempre sul punto di dire qualcosa di
più di quello che poi effettivamente dice, come se volesse trattare
la malattia materiale come un sintomo rivelatore - una
rappresentazione per analogia - del ben più intimo sgretolamento che
sta operandosi nell'intimità del protagonista.
Una nota profondamente perturbante chiude questo capitolo: si
scopre infatti che il Medico delle Ossa si è rivolto per tutto il
tempo del suo monologo ad un terzo personaggio: Alberto Sordi.
Per nulla scosso dalle parole del suo medico, l'Oncofago sillaba
con fredda lucidità poche pesanti parole:"Diventerò un serial
killer, e mangerò le unghie di tutti i figli di puttana che ucciderò
con i miei artigli!".
Quì c'è un flashback: Si torna indietro di qualche anno,
nell'appartamento chiuso e mefitico dell'Oncofago.
E' un uomo distrutto, si è lasciato andare. le ossa gli dolgono
ad ogni passo, fa fatica a chinarsi: ogni tanto gira con un retino
per raccogliere le cose che gli sono cadute." La pesca", la
chiama. Nel primo periodo non si voleva dare per vinto: restava
mattine intere sul letto, piegato in due con la bocca spalancata,
proteso verso le sue estremità, fino a che i dolori lancinanti non
lo vincevano. Successivamente - forse a causa di un delirio mistico
durante il quale credette di trasfigurarsi nel corpo di un puma -
abbracciò una nuova speranza: pensò che facendosi crescere le
unghie per molto tempo, un giorno, sarebbe nuovamente riuscito a
sgranocchiarsele. Ma niente da fare. Proprio quando, dopo anni, stava
per raggiungere i suoi poderosi artigli con le labbra, ecco che
questi cominciarono a incurvarsi verso il basso.
L'oncofago è disperato, e durante un'altra crisi mistica fa
irruzione da un pertugio della finestra un piccolo fringuello,
richiamato da alcune briciole sul davanzale. Completamente invasato
e in preda al delirio, il nostro crede di vedere nel piccolo volatile
un antico dio Azteco dello Sberleffo e - ritrovando per un
istante l'agilità perduta - gli si abbatte contro, perforandone il
tremulo petto con l'unghia dell'alluce. Particolarmente forti e crude
sono le frasi che descrivono gli ultimi istanti di vita
dell'uccellino, i battiti d'ala meccanici, gli occhi neri a
punta di spillo che si fanno opachi, il verso straziante e
prolungato prima di spirare. In quel momento intenso e pulsante,
straripante di vita e morte, Guglielmo Reich - colui che sarebbe più
corretto nominare "l'Oncofago" -, divorando famelico le
unghie del volatile, decide che da quel momento sarà un
serial-killer.
E' notte per le vie di Saronno. Un odore dolciastro di amaretto e
di scarico industriale satura l'aria.
L'Oncofago è in azione. Trova la sua vittima - un giovane
capellone dall'aspetto poco curato e rimbambito dall'hashish -, la
circuisce, la invita a casa sua con la scusa di mostrargli un film
della nouvelle vague e lì, sotto gli impassibili occhi a punta di
spillo di un fringuello tassidermizzato, la sgozza con i suoi
artigli e banchetta voracemente con le unghie del cadavere.
La scena si ripete varie volte; nonnette vispe, cantanti disperati
di tango, operai in cassa integrazione, archeologi, cassiere red-head:
nessuno viene risparmiato dalla furia lucida dell'Oncofago.
I cadaveri vengono ritrovati, uno dopo l'altro, dagli abitanti
della provincia e dalla polizia, in campagna e nei boschi limitrofi
alla città, i piedi orribilmente sfigurati, irriconoscibili.
Alcuni capitoli vengono dedicati alle imprese del nostro
- l'Oncofago - e alle sue peripezie con la polizia.
Un Testardo Poliziotto, convinto della sua colpevolezza, lo marca
stretto; ma il vecchio è astuto e riesce sempre a scamparla.
Indimenticabile la scena in cui il Testardo Poliziotto trova nel suo
gelato alla soia un'unghia di alluce recante la seguente incisione:
"Artigliami!".
A questo punto subentra un personaggio mal riuscito, caratterizzato poco accuratamente, che sembra testimoniare la mia
attuale scarsa voglia di continuare a scrivere questa puttanata e di
chiuderla in fretta e che invece era già stato pensato in
precedenza: l'Estetista.
L'Estetista è una ragazza molto carina di cui c'è
un'illustrazione a colori delle tette alla fine del libro - per
vendere di più -.
L'Oncofago la rapisce, la lega ad una sedia e sta per staccarle le
unghie dei piedi dalla carne con un flessibile quando nota -e
non può fare a meno di apprezzare- la raffinata pedicure e lo
smalto color albicocca che le ricopre.
Fra i due nasce un rapporto di amicizia e stima profonda: lui le
legge il Piccolo Principe e la chiama "la mia volpettina",
lei si prende cura delle di lui magnifiche appendici di
cheratina e si fa promettere che non ucciderà più nessuno.
Grazie al supporto umano e alla capacità di ascoltare senza
giudicare della giovane, l'Oncofago capisce qual è la fonte di tutte
le sue frustrazioni, della sua aggressività repressa e delle
pulsioni negative che lo portarono a mangiarsi compulsivamente le
unghie dei piedi, da giovane, e ad ammazzare persone per poterne
mangiare le unghie dei piedi, da vecchio: ha sempre desiderato essere
donna, ma le fortissime resistenze che gli derivavano dall'introiezione dei precetti a fondamento della rigida educazione
pietista in cui è cresciuto, gli avevano impedito anche solo di
esplicitare tale desiderio.
Così lui, l'Oncofago, saluta l'Estetista - durante una scena d'addio che
dovrebbe essere commovente e invece fa venire il sudore al culo - e parte per Casablanca.
Ivi cambia sesso, identità - per sfuggire alla polizia - e si tinge
le unghie di un tenue color albicocca.
Il romanzo - che a buon diritto, secondo me, dovrà entrare nella
lista dei classici universali della letteratura per l'infanzia - si
conclude con una scena notturna piuttosto espressionista, quasi
onirica, forse un po' esoterica e decisamente fosforea.
Siamo a Bahia, tre anni dopo Casablanca.
Un vecchio transessuale passeggia per le vie del porto,
zoppicando.
Gli si avvicinano due ragazzini del luogo, lo scherniscono.
Da lontano qualcuno osserva la scena.
I ragazzini stanno per passare alle maniere forti: uno stringe
in una mano un pezzetto di stoffa intriso di colla, l'altro un
coltello a farfalla. Gli chiedono la borsa. Lui/lei rifiuta. Il
coltello si avvicina sempre più minacciosamente al seno siliconato
di colui che un tempo si chiamava Gugliemo Reich, triestino, alias il
serial killer meglio conosciuto come "l'Oncofago".
Appena prima che la rapina degeneri in omicidio, un uomo elegante
si avventa sui due adolescenti, disarma il primo e colpisce al naso
il secondo, mettendoli così in fuga.
Il Salvatore, premuroso, si informa sullo stato di salute
dell'Oncofago; il suo volto rimane costantemente in penombra,
nascosto dalla ampia tesa di un cilindro di velluto. Poi, con uno
spiccato accento romanesco, gli/le descrive scrupolosamente cosa
succede al cervello di una persona in stato di shock e lo/la
convince perciò a non passare la notte da solo/a. Lo/la
accompagna a casa e si ferma da lui/lei.
La mattina dopo, nell'appartamento in affitto a una certa Lucilla
Wittgenstein, la polizia troverà uno strano cadavere: il corpo
rugoso, gonfio di silicone e vene color petrolio che era
appartenuto a un transessuale di origine triestina sospettato di
essere stato il famoso serial killer chiamato "l'Oncofago",
giace inerte sul letto, prono, con un retino in testa. Ma la cosa più
incredibile è che su tutta l'epidermide della carcassa - nessun
centimetro escluso - s'estende un gigantesco e orripilante tatuaggio
giraffato.