mercoledì 31 ottobre 2012

La notte dei torti viventi


Halloween 
all'ufficio collocazione mostri 
è un incubo.
Trattasi di una
palazzina statale
anni settanta
fatiscente
con le pareti
grigioline
e verde acqua.
Ci puoi trovare 
mummie esodate
con 6ooo anni
di contributi
- piangono,
avvolte di scontrini -
troppo vecchie
per trovar lavoro,
troppo giovani
per andare in pensione.
Ci puoi trovare
vampiri pignorati
in fila alla mensa 
del povero transilvano
per una ciotola di sangue.
Ci puoi trovare
babau silenziosi
sfrattati dagli armadi
dove avevano magione.
Ci puoi trovare
licantropi precari
costretti a trasformarsi
a seconda di come
gira la luna.
Ci puoi trovare
zombie in attesa
del permesso di soggiorno,
congelati in uno stato
di non-vita
di non-morte.
Ci puoi trovare
fantasmi a progetto,
ectoplasmi intangibili 
ai diritti del lavoro
Ci puoi trovare
gatti neri
che rovistan 
nella rumenta
vicino ai supermercati.

Una fiaccolata di zucche
partirà questa notte
in direzione del mondo degli umani
in segno di protesta
contro qualcosa
che non si sa bene cosa sia
e proprio per questo
- forse -
fa tanta paura.


domenica 28 ottobre 2012

Nei nei

La tua pelle
- romanzo cieco -
leggo con le dita
mie mute.
Braille di nei
che riveste
te 
tiepida
cosa viva.



venerdì 26 ottobre 2012

Colombia



Colombia,
non ho mai avuto a che fare
con te,
Colombia,
mi ricordo solo una volta
al liceo
che era arrivata
una classe di colombiani
a fare uno scambio culturale
e un insegnate di ginnastica
voleva a tutti i costi
insegnarci il mambo 
e la bachata
per accoglierli ballando,
io provai a spiegargli
in buone maniere
che se dovessi mai andare in Colombia
e mi accogliessero ballando la tarantella
io gli tirerei un pugno in faccia;
mi diede 4
e passai tutta l'ora
su una panchina
seduto assieme
alle mie compagne mestruate
o presunte tali.

Colombia,
nonostante i nostri trascorsi
non siano così felici
non ti disprezzo,
anzi,
ho per te quella simpatia 
tenera e un po' egoista
che si prova per i tossicomani
che stanno peggio di te.

Infatti Colombia,
mi ti immagino
costretta alle cene di famiglia
con tutti gli altri stati sud-americani,
seduta al tavolone,
sudata,
che ti gratti il naso,
impaziente.
A capo tavola
il Brasile e l'Argentina
che parlano di calcio
e di quella volta 
che ai mondiali...
poi più giù
la Bolivia discute di rivoluzioni fallite
col Cile che, ormai imborghesito,
sorseggia cabernet vestito di vigogna
e ricorda i tempi degli Inti illimani.
E tu,
Colombia,
seduta di fianco al Paraguay,
il classico cugino muto
e brufoloso
interessante come una visita
alla fabbrica dei tappi di sughero,
carismatico come un Koala,
tu,
Colombia,
sudi e tremi
e pensi:
"ecco
adesso me lo chiedono".
E infatti il Venezuela,
si gira fingendo interesse
e ti chiede:
“E tu, Colombia,
tu di cosa ti occupi?”
“Sono nel ramo
degli aspira-polveri,
vendita all'ingrosso”
“Si guadagna bene?”
“Finché c'è polvere
c'è speranza”.
Poi chiedi scusa,
e con permesso,
e vai in bagno
a prendere un po' di respiro
e a pensare che se qualcuno
al tavolo
ti obbliga a ballare la bachata
tu gli tiri un pugno in faccia.

(dedicata al mio designer di fiducia, F.F.T.)


giovedì 25 ottobre 2012

Non vale rispondere "merda"

Che cos'è
questa roba
che cos'è?

Una danza delle sfere,
una via lattea da bere,
un coro di pirati,
un'ode ai fuochi alati,
un tailleur in carriera,
una fiera
col calcinculo
e tutto il resto,
delle birre
fresche nel ruscello,
un budello
in un bordello
in un budello
di Parigi,
Re Luigi
e sette cani
che mordicchiano la luna,
una zebra
portafortuna
e una Nuer
a seno nudo.

Che cos'è
questa roba
che cos'è?

Una partita
a poker
coi dadi
tra sette evasi
senza nasi,
che annusano
gerani
senza vasi.

Che cos'è
questa roba
che cos'è?
Da dove salta
infuori?
Chi la spinge
a risalire
la laringe?
Chi ne ha
un qualche frutto?
Un fiore,
una bara,
un lutto,
un riflusso
gastrico
del terreno:
morti vomitati
sulla spiaggia
del Reno:
seicento,
meno un mento
che galleggia
sotto un ponte
e confonde
pescatori di frodo,
lucci gialli in brodo.

Ma da dove
viene fuori
questa puzza
di pensieri
andati a male,
questo fiore
senza notte,
questa botte
ubriaca
piena di mogli?

Che cos'è
questa roba
che accompagna
- salsa rubra -
i miei rognoni,
le mie trippe,
i miei polmoni
e i tuoi bla-bla
di Santippe?

Dove cresce
st'alberello
di sardine
senza spine
che boccheggiano
d'azoto:
nel guaito
d'un coyote?
Tra le piume
di Quetzalcoatl?

Sementa
assai bislacca,
certo ammacca
il common sense;
desinar
che non si trova
nei menù
delle common mense.

È una presa
di carbonio,
una resa
del soggetto,
un'attesa
senza aspetto,
il prefetto
più perfetto,
un negletto
cherubino
della langue,
della tongue,
della glotta…
la luce
sulle nuche
della gente
nella grotta.

Che cos'è?
Che cos'è?
Questa roba
che cos'è?

Rispondete,
per favore,
a questo povero
strumento,
al lamento
d'una tazza
paonazza
che trabocca
di the.



mercoledì 24 ottobre 2012

Ironia dell'ironia

Il cinismo è una presa di distanza dal ruolo sociale che di volta in volta ci tocca di ricoprire, e si giustifica con la pretesa (paradossalmente idealistica) di salvare un presunto Sè autentico e immacolato dalla morsa stritolante delle convenzioni e degli obblighi imposti dal buon costume e dall'ipocrisia diffusa; perciò è tenuto prudentemente nascosto (talvolta quasi ignorato dall'individuo medesimo) e custodito come un fatto privato e financo vergognoso. Ma il cinismo esibito volontariamente (e quindi una certa ironia caustica, ad esso correlata, che sembra essere un marchio della contemporaneità) non è che un modo della rappresentazione del Sè, uno stile che si adotta nello svolgere un dato ruolo (o, addirittura, comune allo svolgimento di tutti i ruoli che un individuo può trovarsi a impersonare), col quale si cerca di comunicare ai papabili spettatori un messaggio del tipo: "ora mi vedete così, in questa veste, in questo contesto in cui sembro ridicolo quanto voi, ma io sono anche altro, anzi, io sono molto di più, mentre voi siete solo maschere!". L'ansia di liberarsi dal teatrino umano, di strapparsi e strappare le maschere, diventa maschera neutra di noia, buona per calcare qualsiasi palco, che ridacchia gracchiante ad ogni frase dei compagni di scena; ennesimo ruolo da cui bisogna sapersi, in privato, distaccare, con autentico cinismo non professato.


martedì 23 ottobre 2012

Indossarsi

"Io" 
non è che un'accozzaglia
di "giochi di me"
e "ruoli di me"
e "cerimonie di me"
incastrati,
in bilico,
accatastati
su un magma rappreso
di caratteri genetici
incarnati
e riflessi psico-motori 
innati.

Un costume d'Arlecchino
di pelle umana
- strappato -
che rigurgita
desiderio.

Ma questo è vero
solo se mi guardo,
mai se mi gioco.

L'occhio clinico
è patologico
se non compatisce.



lunedì 22 ottobre 2012

Qui Quo & Quaquaraqua


Un giorno i miei nipotini
alzeranno i loro ditini
e,
indicando una parete
del salotto buono
piena di libri inchiodati al muro,
mi chiederanno:
"Cosa sono quelli,
nonno?"
E allora io,
pizzicandogli benevolmente le guance,
risponderò:
"Eh, quelli, figlioli miei,
quelli sono ricordi
di quando il vostro nonno
giocava a fare l'intellettuale.
L'ho fatto anche in ambito semi-professionistico.
Poi ho finito l'università,
ho ingravidato la nonna
e ho smesso di correre dietro alle parole.
Adesso sono in pensione
dopo un'onorata carriera
da falso invalido.
Ho finto per anni di non avere i capezzoli."

La storia termina con i miei nipotini
- che nel mentre
hanno incomprensibilmente
assunto le fattezze di Qui Quo Qua -
che pensano tra loro:
"che gran persona il nonno.
Uno tutto d'un pezzo, il nonno.
Se n'è perso lo stampo, del nonno.
Tutta un'altra tempra"
e altre amenità sul genere.
Poi io mi commuovo
e gli allungo cinque euri a testa:
"andate,
andate a comprarvi i mandarini
per la merenda".
E loro vanno a comprarsi il fumo.
Ma tanto la storia
a sto punto
è già finita.
è finita
qualche frase fa.


domenica 21 ottobre 2012

L'Oncofago


Voglio scrivere un romanzo introspettivo-thriller che tratti le problematiche di genere.
Il protagonista sarà quest'uomo che sublima la sua pulsione di morte e riesce a sopportare tutte le frustrazioni della vita quotidiana solo mangiandosi le unghie dei piedi.
Tuttavia, dopo una vita monotona e insapore come una vellutata di porri, una bella mattina, nell'anno dei suoi sessantatrè, si sveglia e scopre che la sua flessibilità è in netta diminuzione. Tanto da non permettergli più di mangiarsi le unghie dei piedi. Preoccupato, il nostro, si reca dal Medico delle Ossa -un personaggio enigmatico che indossa sempre un cinturone pelvico giraffato e imita spesso la voce di Alberto Sordi- il quale lo mette al corrente del fatto che una particolare forma reumatica di origine micotica gli sta corrodendo le teste dei femori.
Per l'oncofago -che chiameremo Guglielmo Reich, triestino di origine, solo per limitare le ripetizioni e l'uso dei pronomi e rendere un po' più scorrevole il testo, ma che dovrebbe comunque e sempre essere nominato come: l'Oncofago-, per l'Oncofago, dicevamo, questo è un brutto colpo. Ogni mattina vede le sue appendici inferiori farsi sempre di un poco più lontane.
Non è vita quella, cazzo.
Seguono quattro o cinque capitoli molto lenti e poco credibili sul piano della ricostruzione narrativa della malattia mentale in cui il nostro, l'Oncofago, scappa dalla società civile e si barrica nel suo appartamento vivendo nella continua paranoia causata dai minimi rumori provenienti dal piano di sopra, dalle tubature, dalla strada, dalla notte. Sarà in questo clima ammorbante che il triestino - o meglio, l'Oncofago - in seguito alle prime crisi di delirio - come verrà spiegato più tardi, mentre qui viene solo lasciato presagire - maturerà la decisione di non tagliarsi mai più le unghie dei piedi.

Sono passati otto anni dai fatti narrati. Una figura intabarrata in un impermeabile bianco, col volto coperto da vistosi occhiali da sole, sta salendo con andatura zoppicante le scale che portano allo studio del Dottore delle Ossa. Una mano rugosa, smunta, con molli rughe blu petrolio in rilievo, gira la maniglia della porta.
Il dottore è lì, seduto dietro la scrivania; lo stava aspettando.
"Signor Reich!" dice, "...o forse dovremmo chiamarla l'Oncofago?".
L'Oncofago si sfila gli occhiali da sole e mostra un volto mangiato da rughe profonde, di un pallore latteo. Ma è la descrizione minuziosa dei suoi occhi grigio/cerulei - privi di qualsiasi sfumatura umana eppure vibranti di un carsico orrore - a lasciare agghiacciato il lettore. La descrizione di quegli occhi e di tutti loro impercettibili tremori riempe il capitolo sino alla fine.
Il successivo è incentrato sulla figura ambigua e sfuggente del Medico delle Ossa, che appare cambiato e - se possibile - ancora più eccentrico. Oltre al cinturone pelvico giraffato ora porta anche un fez decorato con la medesima fantasia. Parla lungamente all'Oncofago della sua malattia reumatica, analizzandone minuziosamente le cause ambientali, genetiche, comportamentali... da come parla della patologia, tuttavia, appare chiaro che egli ha capito quali mostruose trasformazioni essa ha operato nella mente deviata del suo paziente, e la sua fine diagnosi sembra sempre sul punto di dire qualcosa di più di quello che poi effettivamente dice, come se volesse trattare la malattia materiale come un sintomo rivelatore - una rappresentazione per analogia - del ben più intimo sgretolamento che sta operandosi nell'intimità del protagonista.
Una nota profondamente perturbante chiude questo capitolo: si scopre infatti che il Medico delle Ossa si è rivolto per tutto il tempo del suo monologo ad un terzo personaggio: Alberto Sordi.
Per nulla scosso dalle parole del suo medico, l'Oncofago sillaba con fredda lucidità poche pesanti parole:"Diventerò un serial killer, e mangerò le unghie di tutti i figli di puttana che ucciderò con i miei artigli!".

Quì c'è un flashback: Si torna indietro di qualche anno, nell'appartamento chiuso e mefitico dell'Oncofago.
E' un uomo distrutto, si è lasciato andare. le ossa gli dolgono ad ogni passo, fa fatica a chinarsi: ogni tanto gira con un retino per raccogliere le cose che gli sono cadute." La pesca", la chiama. Nel primo periodo non si voleva dare per vinto: restava mattine intere sul letto, piegato in due con la bocca spalancata, proteso verso le sue estremità, fino a che i dolori lancinanti non lo vincevano. Successivamente - forse a causa di un delirio mistico durante il quale credette di trasfigurarsi nel corpo di un puma - abbracciò una nuova speranza: pensò che facendosi crescere le unghie per molto tempo, un giorno, sarebbe nuovamente riuscito a sgranocchiarsele. Ma niente da fare. Proprio quando, dopo anni, stava per raggiungere i suoi poderosi artigli con le labbra, ecco che questi cominciarono a incurvarsi verso il basso.
L'oncofago è disperato, e durante un'altra crisi mistica fa irruzione da un pertugio della finestra un piccolo fringuello, richiamato da alcune briciole sul davanzale. Completamente invasato e in preda al delirio, il nostro crede di vedere nel piccolo volatile un antico dio Azteco dello Sberleffo e - ritrovando per un istante l'agilità perduta - gli si abbatte contro, perforandone il tremulo petto con l'unghia dell'alluce. Particolarmente forti e crude sono le frasi che descrivono gli ultimi istanti di vita dell'uccellino, i battiti d'ala meccanici, gli occhi neri a punta di spillo che si fanno opachi,  il verso straziante e prolungato prima di spirare. In quel momento intenso e pulsante, straripante di vita e morte, Guglielmo Reich - colui che sarebbe più corretto nominare "l'Oncofago" -, divorando famelico le unghie del volatile, decide che da quel momento sarà un serial-killer.

E' notte per le vie di Saronno. Un odore dolciastro di amaretto e di scarico industriale satura l'aria.
L'Oncofago è in azione. Trova la sua vittima - un giovane capellone dall'aspetto poco curato e rimbambito dall'hashish -, la circuisce, la invita a casa sua con la scusa di mostrargli un film della nouvelle vague e lì, sotto gli impassibili occhi a punta di spillo di un fringuello tassidermizzato, la sgozza con i suoi artigli e banchetta voracemente con le unghie del cadavere.
La scena si ripete varie volte; nonnette vispe, cantanti disperati di tango, operai in cassa integrazione, archeologi, cassiere red-head: nessuno viene risparmiato dalla furia lucida dell'Oncofago.
I cadaveri vengono ritrovati, uno dopo l'altro, dagli abitanti della provincia e dalla polizia, in campagna e nei boschi limitrofi alla città, i piedi orribilmente sfigurati, irriconoscibili.

Alcuni capitoli vengono dedicati alle imprese del nostro - l'Oncofago - e alle sue peripezie con la polizia.
Un Testardo Poliziotto, convinto della sua colpevolezza, lo marca stretto; ma il vecchio è astuto e riesce sempre a scamparla. Indimenticabile la scena in cui il Testardo Poliziotto trova nel suo gelato alla soia un'unghia di alluce recante la seguente incisione: "Artigliami!".

A questo punto subentra un personaggio mal riuscito, caratterizzato poco accuratamente, che sembra testimoniare la mia attuale scarsa voglia di continuare a scrivere questa puttanata e di chiuderla in fretta e che invece era già stato pensato in precedenza: l'Estetista.
L'Estetista è una ragazza molto carina di cui c'è un'illustrazione a colori delle tette alla fine del libro - per vendere di più -.
L'Oncofago la rapisce, la lega ad una sedia e sta per staccarle le unghie dei piedi dalla carne con un flessibile quando nota -e non può fare a meno di apprezzare- la raffinata pedicure e lo smalto color albicocca che le ricopre.
Fra i due nasce un rapporto di amicizia e stima profonda: lui le legge il Piccolo Principe e la chiama "la mia volpettina", lei si prende cura delle di lui magnifiche appendici di cheratina e si fa promettere che non ucciderà più nessuno.
Grazie al supporto umano e alla capacità di ascoltare senza giudicare della giovane, l'Oncofago capisce qual è la fonte di tutte le sue frustrazioni, della sua aggressività repressa e delle pulsioni negative che lo portarono a mangiarsi compulsivamente le unghie dei piedi, da giovane, e ad ammazzare persone per poterne mangiare le unghie dei piedi, da vecchio: ha sempre desiderato essere donna, ma le fortissime resistenze che gli derivavano dall'introiezione dei precetti a fondamento della rigida educazione pietista in cui è cresciuto, gli avevano impedito anche solo di esplicitare tale desiderio.
Così lui, l'Oncofago, saluta l'Estetista - durante una scena d'addio che dovrebbe essere commovente e invece fa venire il sudore al culo - e parte per Casablanca.
Ivi cambia sesso, identità - per sfuggire alla polizia - e si tinge le unghie di un tenue color albicocca.

Il romanzo - che a buon diritto, secondo me, dovrà entrare nella lista dei classici universali della letteratura per l'infanzia - si conclude con una scena notturna piuttosto espressionista, quasi onirica, forse un po' esoterica e decisamente fosforea.
Siamo a Bahia, tre anni dopo Casablanca.
Un vecchio transessuale passeggia per le vie del porto, zoppicando.
Gli si avvicinano due ragazzini del luogo, lo scherniscono.
Da lontano qualcuno osserva la scena.
I ragazzini stanno per passare alle maniere forti: uno stringe in una mano un pezzetto di stoffa intriso di colla, l'altro un coltello a farfalla. Gli chiedono la borsa. Lui/lei rifiuta. Il coltello si avvicina sempre più minacciosamente al seno siliconato di colui che un tempo si chiamava Gugliemo Reich, triestino, alias il serial killer meglio conosciuto come "l'Oncofago".
Appena prima che la rapina degeneri in omicidio, un uomo elegante si avventa sui due adolescenti, disarma il primo e colpisce al naso il secondo, mettendoli così in fuga.
Il Salvatore, premuroso, si informa sullo stato di salute dell'Oncofago; il suo volto rimane costantemente in penombra, nascosto dalla ampia tesa di un cilindro di velluto. Poi, con uno spiccato accento romanesco, gli/le descrive scrupolosamente cosa succede al cervello di una persona in stato di shock e lo/la convince perciò a  non passare la notte da solo/a. Lo/la accompagna a casa e si ferma da lui/lei.

La mattina dopo, nell'appartamento in affitto a una certa Lucilla Wittgenstein, la polizia troverà uno strano cadavere: il corpo rugoso, gonfio di silicone e vene color petrolio che era appartenuto a un transessuale di origine triestina sospettato di essere stato il famoso serial killer chiamato "l'Oncofago", giace inerte sul letto, prono, con un retino in testa. Ma la cosa più incredibile è che su tutta l'epidermide della carcassa - nessun centimetro escluso - s'estende un gigantesco e orripilante tatuaggio giraffato.



venerdì 19 ottobre 2012

Valzerino

Questo valzerino con la fisarmonica?
Ecco, se senti una musichetta del genere
quasi sicuramente sei dentro un film francese,
uno di quei film ambientati a Parigi
dove se piove è bello
e c'è sempre qualche stronzo in bici
contento
e gli artisti di strada
che magari sono anche brutti
ma fanno dei quadri belli...
Ah se son belli quei quadri!
Se senti questa musichetta,
caro mio,
nulla di più facile che tu sia una comparsa
nella scena del bar
dove i due innamorati
s'incontrano per caso
e s'innamorano di più,
perché se t'incontri per caso
in un bar di Parigi
mentre gira un valzer
e sei in un film
l'unica possibilità
è che t'innamori, 
t'innamori ancora di più.
Oppure c'è una strage di lì a poco,
però quello è un altro genere di sceneggiatura.
Ma tu niente,
non hai incontrato nessuno per caso,
infatti sei una comparsa,
la storia non è la tua,
sei solo il tizio triste del bar,
quello che guarda fuori
dalla finestra,
in alto a sinistra
nell'inquadratura.
Sei pensoso,
e sembri proprio pensare
pensieri pensosi,
e la gente che ti guarda
al di qua del cineschermo,
quella gente almeno
che non si fa abbindolare
dalla storia d'amore in primo piano,
si chiede, pensosa anch'essa:
"Ma cosa diavolo c'ha
da pensare tutto il tempo
quello lì che incornicia la scena
assieme ad altri cinque volti felici?".
Il fatto è che tu guardi fuori dalla finestra,
e fuori dalla finestra piove
e c'è Parigi
e sembra tutto normale;
ma ad un tratto succede una cosa,
una di quelle cose 
che dovrebbero essere incredibili
e inattese
e fantastiche;
ma non succede mai nulla
di veramente incredibile
e inatteso
e fantastico
in questi film in cui tutto
sembra essere incredibile
e inatteso
e fantastico,
non so se mi capite.
In sostanza,
oltre la vetrata
sotto la pioggia
in mezzo a Parigi
c'è un nano
vestito da fantino
che balla con una ballerina
vestita da odalisca.
E il nano ride
e ride e balla
e balla e ride,
nel suo costume 
da fantino nano.
E la gente in sala non capisce
perché tu sia pensoso
e tocca quelli di fianco con il gomito
e sussurra a bassa voce:
"è una scena incredibile
e inattesa
e fantastica,
perché quel tizio 
non lacrima di gioia,
perché ha un'aria
così pensosa?".
Il fatto è
che non riesci a capire
cosa cazzo c'abbiano sempre
da ridere e danzare
sti nani dei film.
No, non è che tu sia
razzista
nei confronti dei nani.
Per carità.
Però ti han sempre fatto
una strana impressione,
i nani:
è come se la loro piccolezza
ingigantisse
la piccolezza di tutti quanti.
E poi,
ballano male.
Per questo sei pensoso.
Ma loro non lo sanno,
né lo sapranno mai,
perché la scena ormai cambia,
muore il tuo fotogramma,
e già tutti son distratti 
da un'altra bellissima
corsa in bicicletta
sotto la pioggia
per le vie di Parigi,
a ritmo di valzerino.



giovedì 18 ottobre 2012

Il Notevole Ragazzo Elicottero


Il Ragazzo Elicottero
è un supereroe
e ci difende dal male.
Il Ragazzo Elicottero
è un supereroe
e sa volare.
Il Ragazzo Elicottero
ha un costume molto bello:
è nero
è verde,
attillato,
iridescente,
non ha il mantello;
ha però un buco,
un buco, sì,
per l'uccello.

Quando il Ragazzo Elicottero
impugna il suo strumento
il villano si fa livido
per lo sgomento.
Ecco già la mano
sapientemente
imprime al membro
il caratteristico
centrifugo
movimento...
Uno
due
tre giri:
l'aria fischia
e barrisce,
i piedi si staccano dal suolo,
ai cattivi torna in gola il bolo,
non ci sono cazzi per nessuno,
Helycopter Boy vi farà il culo
a fette e strisce.

Il Ragazzo Elicottero
sfreccia fra le nubi,
sventa piani cupi
a colpi di capocchia,
innaffia i suoi nemicci
di appiccicaticci
effluvi orgasmicci,
goliardico vigilante
nemico di slippini
e d'ogni tipo
di mutande.

Il Ragazzo Elicottero,
per il resto sprezzante,
ha un'unica nemesi:
la Fica Volante.
Quando costei
s'avvicina - meschina -
l'arnese - d'un tratto -
diviene barzotto
e perde d'elasticità;
lei, che lo sa,
si fa più contigua,
lo carezza,
lo bacia
- femmina ambigua -
gli mordicchia
l'orecchio
con la dolcezza
del miele d'acacia.
lui - paonazzo -
s'aggrappa sconcerto
al suo mattarello
- per non dire cazzo -
e mentre precipita
e grida:
"MAY-DAY!
MAY_DAY!
S.O.S.!"
maledice il suo durello
e l'opinabile scelta
d'indossare un costume 
senza mantello.

(Si ringrazia sentitamente J.B., unico vero Ragazzo Elicottero)