lunedì 16 dicembre 2013

La macchia nel parco

Sulla strada che porta al parco
c'è una macchia d'olio
che sembra un brontosauro.
O un diplodoco.
Nel suo regno bidimensionale
tutto funziona diverso
non saprei dire
se bene o male
o peggio.
Fatto sta
che lui non sa
di essere estinto,
perciò barrisce
dal cemento
ad ogni suola
di bambino
che lo calpesta,
ad ogni lombrico
che lo attraversa
- s'è messo in testa
di essere il re
della foresta.
Ma quando il sole
dà il bacio della notte
sulle fronde
delle betulle,
le mamme spingono via
i passeggini, 
le badanti russe
le carrozzine,
e l'erba del parco
- non vista -
cresce
nel silenzio 
ultra-normale
dello spazio
tridimensionale...
Allora il brontosauro
d'olio di motore
diventa l'ombra autentica
di una paura solida
che sopravvive nel cuore
più umido e nero
del parco buio,
appena aldilà
delle sirene delle ambulanze
e dei neon delle pizzerie.
E barrisce ai bambini
sprofondati nei piumoni
dalla sua jungla giurassica
di rametti spezzati
e mozziconi calpestati.


mercoledì 11 dicembre 2013

Una mattina, andando nell'aria di vetro


Stamattina mi sono alzato presto e ho fatto colazione con yogurt e cereali.

La tavola era apparecchiata con una tovaglia a quadri verdi e bianchi.

I cereali cosparsi di cioccolato fuso. Fondente.
Ho una madre che si sveglia presto. Più presto. 
E mi vuole bene. Più bene.
Stamattina mi sono svegliato presto e sono andato a lavorare.
Ho scrostato il vetro della macchina dalla brina spessa e mi sono sentito come una nave rompighiaccio fatta di muscoli e fiato condensato. Una nave che trasporta neuroni migranti da un luogo pensato come casa a un altro, misterioso. Poi ho riposto nel cruscotto la paletta che mi ha donato mio padre e son partito.
C'è un punto - appena usciti dalla stradina secondaria dove abito - , c'è un punto in cui il sole, pugile, buca la guardia dei tetti e colpisce con un jab di luce la strada. Un bagliore immenso che si divora alcuni metri e alcuni secondi e alcuni pensieri. I miei occhi tremanti sono piccoli marsupiali alla base della catena alimentare; si rifugiano nelle tane degli occhi, tra le ciglia di sottobosco, spaventati da quel gigantesco predatore bianco e rapace. Un buco nella realtà, nulla più. 
Le strade di mattina sono regolate da segnaletiche di bestemmie, denti digrignati e fiati di caffè. Scolopendre lucenti sulla statale, ticchettare di frecce e polpastrelli sui volanti. Dita in bocca, dita nel naso, dita ferocemente erte contro gli ineffabili coglioni che s'innestano senza precedenza - come noi faremo tra due svincoli, ma con ragione.
Le strade di mattina sono belle come luoghi di battaglie campali.
Stamattina poi, la coda è più coda del solito; il ponte della tangenziale, duodeno che unisce la periferia a Biella città, è particolarmente stitico. A stento me ne trascino fuori, strisciando sui copertoni.
Da lontano intravedo, alla rotonda del Mercatone Uno, striscioni e megafoni, lampeggianti.
La rivoluzione.
Tu ti svegli una mattina, convinto di andare a lavorare - quasi grato - e invece no. La rivoluzione.
A dire il vero c'era già ieri, la rivoluzione. Sempre nello stesso punto: la rivoluzione è sedentaria.
E io ci sono già passato in mezzo. Ma la mattina le strade sono belle come sto cazzo, e le scolopendre e le bestemmie, e mi sono distratto. A fare il lirico. Ci si distrae. Ho fatto la stessa strada di sempre, senza pensare, e sono capitato di nuovo nella rivoluzione. Ben mi sta.
Un uomo con dei volantini passa tra le macchine. Due ragazze, infreddolite, stanno nel prato, sotto ad un gazebo. Davanti a loro un lenzuolo con la scritta "Abbattiamo la Kasta!!!". Sbuffano aliti bianchi come brina da sotto le sciarpe di lana, picchiano la terra con la punta delle Vans per il freddo. 
La lentezza induce a pensare. Le testuggini sono rettili socratici. Così penso. Penso che non è offrendo un posto di lavoro mal pagato per sei mesi a una trentina di neolaureati che la disoccupazione giovanile svaporerà come vampiro al sole. Penso che sto prendendo soldi da una provincia che è fallita. Penso al fatto che il mio stage si pone come obiettivo quello di rendermi il più possibile simile a uno scarrafone kafkiano. Di quelli da ufficio. Che scappano tra le carte e poi si spiaccicano tra un faldone di dati e un registro delle attività di formazione del 2009. 
Poi penso a Renzi. Poi a Crozza che imita la voce di Renzi. Poi al cartonato di Civati, l'altra sera, all'Otto.
Poi penso che sarebbe facile dare la colpa a un volto, a una parola, a una figura che si stacca dallo sfondo.
Gli occhi faticano, faticano sempre a cogliere lo sfondo. Forse abbiamo il cervello troppo spesso in controluce.
Ora l'uomo coi volantini è di fronte a me. L'ultimo difensore a separarmi dall'entrata del tunnel. Nella mano destra impugna un megafono. Lo alza, ci parla dentro. Le sue parole attraversano l'aria ghiacciata del mattino, si schiantano contro il vetro della mia honda, volant.
Io, dentro, l'abitacolo, astronauta, pisello, nel, baccello, taccio, sordo.
Un disco bellissimo e spietatamente nevoso fruscia fuori dalle casse. 65 days of statics. Silent running, forse. Me l'ha regalato lo Zeta.
Ci guardiamo negli occhi per qualche stupido secondo di naftalina. I suoi sono azzurri e hanno visto una ventina d'anni più dei miei.
Mi sento pesante, lento, goffo, armato di un vocabolario grigio, incapace di acchiappare come uno zaino protonico lo spettro del reale. Sono spaventato dalla possibilità di relazionarmi attraverso la parola con un altro sapiens: quasi sempre finisce a colpi di selce scheggiata. Siamo caricature, uno per l'altro. Abbiamo già una storia pronta da appenderci a vicenda sul naso, come una palla di Natale.
Bisbiglia ancora qualcosa nella coclea del megafono, poi allunga il collo, interrogativo, come a chiedermi una risposta. Io scuoto la testa. 
Un sorriso amaramente cortese gli taglia la pelle sotto al naso. Si scosta di lato, mi fa cenno di passare. Mollo la frizione, accelero, scompaio.

Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. 
Non c'è peggior muto di chi parla al megafono.



mercoledì 27 novembre 2013

Breve dialogo tra Il Girardiano Ingenuo e Un Freudiano Troppo Puntale, con prezioso contributo finale de Lo Stralunato Poeta Simbolista.


Personaggi:

UN FREUDIANO TROPPO PUNTUALE (UFTP)
PAOLO CONTE
VALENTINO
QUEL GIORGIO MASTROTA MUTO
IL TELEVISORE
IL GIRARDIANO INGENUO (IGI)
LO STRALUNATO POETA SIMBOLISTA (LSPS)

Prima ancora che il pubblico si sieda in sala, entra UN FREUDIANO TROPPO PUNTUALE che si posiziona al centro del palco. Muto, guarda in giro, interrogativo. Dopo un minuto, imbarazzato, torna dietro le quinte.

Scena:

Salotto in stile Vittoriano. Alla sinistra del pubblico: pianoforte a coda su cui PAOLO CONTE tossicchia lentamente note d'accompagnamento. Sul fondo: sofà d'argento con cuscini verde-acqua. Davanti al sofà: un tavolino d'ebano intagliato. Sopra al tavolino: un telecomando e due tazzine di finissima porcellana cinese – entrambe sbeccate – colme fino all'orlo di tè pecko. Sotto al tavolino: un tappeto egiziano color porpora. Appena a lato: VALENTINO, nudo. Più avanti, sulla destra: un'amabile cassettiera di ebano verniciato su cui capeggia IL TELEVISORE, che dà le spalle al pubblico. Sull'avanpalco: QUEL GIORGIO MASTROTA MUTO indica una scritta in sovra-impressione che recita:

TUTTO A 10 EURO!

Entrano due signori eleganti: vestono VALENTINO. Sono IL GIRARDIANO INGENUO (IGI) e UN FREUDIANO TROPPO PUNTUALE (UFTP). Si siedono sul sofà e cominciano – alternatamente – a sorseggiare il tè. Quando uno beve, l'altro chiude gli occhi. Sulle palpebre hanno entrambi un velo di ombretto porpora.

IGI (accendendo il televisore, non appena finisce il tè): L'uomo soffre di una carenza ontologica.

IL TELEVISORE: Btz.

UFTP: Secondo Schopenhauer il problema della morte è all'inizio di ogni filosofia”, Sigmund Freud, Totem e tabù in Opere (vol.VII, 1912-1914), Boringhieri, Torino 1975, pag.93.

IL TELEVISORE: Sono invincibile.

IGI (cambiando canale): E vede negli altri ciò che a lui manca. Perciò comincia ad imitare un modello e traduce il desiderio d'essere in desiderio d'essere l'altro.

IL TELEVISORE: BBBBBBBBBBalotelliiiiiiiiiiiiii!

UFTP: “il re o il capo-tribù suscita gelosia per le sue prerogative. Ogni uomo, verosimilmente, desidera essere re. Quest'uomo suscita invidia. Infatti, perché a lui dovrebbe essere concesso quello che agli altri è proibito? Egli, dunque, risulta realmente contagioso, in quanto induce col suo esempio alla tentazione” , Sigmund Freud, Totem e tabù, Newton, Roma 1990, p.82

IL TELEVISORE: libidine! Doppia libidine! Libidine col fiocco!

IGI (cambiando canale): Il soggetto, dunque, nella sua brama d'essere altro da sé, assume le credenze, gli abiti e i desideri di colui che elegge “maestro”. Il desiderio originario – metafisico – si declina quindi nei vari desideri contingenti, veicolati dal modello, e si protende verso i singoli oggetti che dovrebbero soddisfarli. Così si crea un triangolo tra discepolo-modello-oggetto.

IL TELEVISORE: Il triangolo no / non l'avevo considerato.

IGI (cambiando canale): Il modello è il mediatore del desiderio che si oggettiva in un prodotto.

IL TELEVISORE: ...Rosebud...

IGI (cambiando canale): Ma tale prodotto, anche laddove venisse conquistato/acquistato, non potrà che lasciar deluso il soggetto perché non è in grado di conferirgli quell'essenza di cui è privo.
Quando l'oggetto raggiunto non appaga, si cerca un nuovo modello. Quando l'oggetto è invece irraggiungibile, perché appannaggio del solo modello o perché illusorio, può scatenare una crisi mimetica, che si manifesta con l'aumento della tensione nel tessuto sociale.

UFTP: “Un padre violento, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i suoi figli man mano che crescono, [è alla base dell'] organizzazione più primitiva di cui siamo a conoscenza. […] un giorno i fratelli scacciati si sono riuniti, hanno ucciso e mangiato il padre, ponendo fine all'orda paterna. […] il violento progenitore costituiva certamente il modello invidiato e temuto di ciascuno dei membri di questa associazione fraterna. Essi realizzavano con l'atto del pasto, la loro identificazione con lui, ciascuno si appropriava di parte della sua forza. Il banchetto totemico, che è forse la prima festa dell'umanità, sarebbe la riproduzione e come la commemorazione di questa azione memorabile e criminale che ha costituito il punto di partenza per tante cose: organizzazioni sociali, limitazioni morali, religioni” , Sigmund Freud, Totem e tabù, Newton, Roma 1990, pp.175-176.

IL TELEVISORE: … proprio come sostiene il portavoce del Pdl Capezzone.

IGI (cambiando canale): La crisi mimetica ha come uniche possibilità di sfogo la guerra – disgregazione dell'ordine sociale – o il sacrificio – mantenimento dell'identità del soggetto collettivo a scapito di un soggetto singolo che funge da capro espiatorio.

UFTP: “La trasformazione pulsionale, su cui poggia la nostra attitudine all'incivilimento, può sotto l'azione del circostanze soggiacere, transitoriamente o duraturamente, a un processo involutivo” Sigmund Freud, Considerazioni sulla guerra e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 1971, pag. 47.

IL TELEVISORE: L'orrore, L'orrore...

IGI: Insomma, tutta la costruzione si regge in piedi grazie a una condizione di menzogna verso sé stessi che è connaturata alla coscienza e che si esplicita in una dialettica continua fra due polarità: una lucida – svelatrice della menzogna – e una opaca – che la difende.

UFTP: “Dal momento in cui abbiamo superato l'errore di supporre che il dimenticare cui siamo abituati significhi distruggere la traccia mnemonica, sia cioè un annullamento, propendiamo per l'ipotesi opposta, ossia che, una volta formatosi, nella vita psichica nulla può perire, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, può nuovamente venir portato alla luce”, Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino 1971, p.204.

Barcollando, in mutande, entra LO STRALUNATO POETA SIMBOLISTA (LSPS). Le sue pupille abnormi rivelano palesemente la sua condizione alterata, causata dall'assunzione di laudano. IGI spegne il televisore, scandalizzato, e rivolgendosi al pubblico fa cenno di scusarlo. Ma LSPS non gli da retta e, con tono profondo e profetico, comincia a raccontare la storia del Mucchio Selvaggio.

LSPS: Una savana desolata, sabbiosa, riarsa. Una folla incalcolabile di esseri umani delle più svariate taglie, appartenenze, epoche. Di primo acchito sembrano due squadre di rugby pronte per la mischia. Ma non ci sono schieramenti: tutti puntano indistintamente verso il centro e sono posizionati in cerchi concentrici. Bramano di superare chi sta loro innanzi. Ognuno si dibatte incastrato fra decine di arti e schiene, si arrampica su scale di ossa, sguscia attraverso un oceano di corpi. Più si avanza nei cerchi, più la lotta si fa ardua: morsi, calci, duelli. Quando infine qualcuno riesce a raggiungere l'epicentro, viene ucciso e divorato.

UFTP: E questa storia cosa sarebbe?

LSPS: Elementare: la vita. Senza laudano, s'intende.

IL TELEVISORE (accendendosi da solo per poi rispegnersi subito dopo): DUM-CHA!

IGI: Sipario!

Cala il sipario. Rumore di zoccoli, piatti rotti e gatti investiti.
QUEL GIORGIO MASTROTA MUTO, sdraiato su di un materasso anallergico, indica la scritta in sovra-impressione:







venerdì 15 novembre 2013

PLEY


Domenica 17 Novembre, h 18.00-20.00 e 22.00-00.00

Gasoline Road Bar. Cerreto Castello. Nella provincia della provincia.
Esattamente lì, esattamente in quel lasso di tempo, potrebbe accadere qualcosa di bello. Potrebbe perché dipende da chi vi parteciperà. 

Vi state chiedendo di che si tratti? Ebbene: un esperimento musicale, un concerto interattivo, una live session con quattro musicisti da suonare - quei bravi ragazzi dei #y, per intenderci. 

Vi state chiedendo come funziona? Bravi. Continuate a chiedervelo.

Vi dico solo che, chi volesse offrirsi come cavia volontaria, avrà l'opportunità di influenzare il flusso di improvvisazione attraverso parole, frasi, suggestioni. Io, il Cappellaio, farò da tramite, danzando sulla linea sottile che separa chi si esibisce da chi assiste passivamente. 

Il prodotto sarà un cinema di immagini mentali sorrette da una robusta colonna sonora condivisa. Un gioco d'interazione in cui pubblico e performer s'influenzano reciprocamente, dando vita ad un'atmosfera fatta di suoni e immaginazione.

Insomma - non si fosse capito - venite che si spacca tutto.

Il Cappellaio

mercoledì 6 novembre 2013

potpourri pourparler

Una papera si lava i denti,
poi si ferma, 
chiude lentamente il lavandino
a chiave
e si guarda allo specchio:
nello specchio c'è il mare
di notte
- una gondola
al posto della luna.
Lontano,
il rumore di una bolla 
di saliva
che esplode
nello spazio tra gl'incisivi
dell'equatore
sveglia i gatti
dai loro letti
a una piazza e mezza:
sui tetti,
in calore,
miagola il loro padrone.
Rumore di ferraglia.
Immagini confuse:
quello sembra un piede,

ma non ne sono certo.
Assi da stiro
in coda
sulla Genova-Alessandria.
Si prevedono precipitazioni
nel box doccia.
La gondola cade
e si spezza
in sillabe
sparse:
do
la
gon
galleggiano in mare
alla deriva.
Tre istrici applaudono.
Cala il sipario.
Le teste rotolano.
La papera muore
su di un tappeto 
di succo d'arancia.



martedì 22 ottobre 2013

Il fumo uccide - Spressionismo per il sociale

Che il fumo uccida non è una novità. Milioni di persone nel mondo devono fare i conti con i pericolosi danni causati da questa terribile dipendenza. Da anni, poi, è dominio comune il fatto che persino il fumo passivo sia deleterio per l'organismo. Perciò, tranquilli, non ho intenzione di soffermarmi su queste note ed annose questioni. 
Ciò che mi preme mettere a fuoco in questo post è un fenomeno collaterale legato al fumo di sigari e sigarette; un argomento scomodo, spesso taciuto e obliato anche negli studi di settore più limpidi, il cui dibattito è fortemente osteggiato dalle multinazionali del tabacco. Un problema che, tuttavia, sta assumendo rapidamente le dimensioni di un'emergenza che non si può più rimandare.  
L' AIAGN (Associazione Internazionale Amici dei Gas Nobili) ha recentemente pubblicato gli sconfortanti dati della sua ultima ricerca; secondo questo studio condotto da esperti su un campione trasversale di soggetti, la situazione è gravissima: ogni giorno oltre 70000 oggetti gonfiabili esplodono per colpa di sigarette. Un palloncino su cinque è vittima di fumatori. Tre materassini da mare su dieci. Un vero genocidio su cui non possiamo più permetterci di tacere. 
L'AIAGN ci informa che le cause più frequenti che concorrono a scatenare la tragedia sono la sbadataggine, la disinformazione sulle proprietà delle materie plastiche e il cinismo dei fumatori. Si badi bene che qui non si intende demonizzare il fumatore come persona: nulla è più lontano dalla nostra forma mentis di uno sterile giustizialismo che aggiungerebbe solo rancore al rancore. Per questo prendiamo vigorosamente le distanze dagli attacchi terroristici di Lisbona e Pechino, durante i quali sono stati liberati nel centro delle città migliaia di palloncini grigi gonfiati con gas esilarante. Noi siamo fermamente convinti che la strada giusta da prendere perché ciò non accada più sia quella della prevenzione e della sensibilizzazione. Per questo il Collettivo Nuovo Cinema Spressionista supporta "Fumare circospetti", la campagna che l'AIAGN sta diffondendo nelle scuole elementari di tutta Italia. Perché è nostro desiderio che i gonfiabili di tutti i tipi, senza distinzione di forma, colore e dimensione, siano liberi di galleggiare nell'aria e sull'acqua del nostro bel pianeta. Usate i vostri polmoni per fare qualcosa di bello: aiutateci a dar fiato a questa causa. La prossima volta che vi accendete una sigaretta, pensate a cosa sarebbe il nostro mondo senza palloncini. 


Ecco l'umile contributo del Collettivo Spressionista:


IL FUMO UCCIDE
- Spressionismo per il sociale -

Durata: 9"
Regia: Simone Perazzone

Con: Francesco Pavignano, il palloncino viola col cappello
Voci fuori campo: Ferdinando Ferraro Titin, 
Alberto Rosso, Carlotta Petri.





mercoledì 9 ottobre 2013

Vernice

Oggi ho dipinto
un mobile di bianco.
Dipingere qualcosa,
una cosa di bianco,
è come grattarle via
il tempo;
mano dopo mano
svanisce la sostanza
sbiadisce la consistenza.
A toccarlo, 
a tamburellarlo
rimane legno,
ma non per gli occhi.
Gli occhi son fatti
per essere ingannati.
Sotto il pennello
svaniscono i nodi,
le increspature:
il mobile torna puro,
reale e lontano,
appena uscito dalla mente
del falegname che l'ha concepito.
Qualcosa di più simile
alle immagini affrescate
sulla volta interna 
del cranio.

Chiudi gli occhi,
guardalo.

Dentro un quadro di Dalì,
una balena a cassetti
albina
fende le onde
dell'Oceano Artificio.
E per ogni balena,
per ogni balena, si sa,
c'è un capitano.
Cosa cerchi, capitano?
Cos'hai dimenticato
nei cassetti del cetaceo?
Quale ricordo tiene il fiato,
affondato, dimenticato,
nell'acqua salmastra?
Un amuleto,
un corallo,
un'ostrica di cristallo -
bocca degli abissi
che serba ermetica
il suo madreperlaceo 
segreto.



giovedì 3 ottobre 2013

L'Ondata Spressionista non si arresta

Continua la crociata Spressionista contro l'estetica del benfatto.
Nuovi adepti si uniscono alla causa: segnalo in particolare alcuni lavori acerbi ma intriganti del giovane regista chiavazzese Tommaso Esposito (Nuovo Cinema Spressionista Vol.I ;Anche a Wellington, Spressionismo ;Shadows And Lights). In questi film, la rigidità un po' scolastica con cui viene seguito il dogma del trentaquattresimo secondo stride con la grande libertà espressiva del regista, che trova una sua cifra estetica, un suo alfabeto personale soprattutto nell'uso creativo del sonoro (rigorosamente diegetico, come ovvio) e nella scelta di incentrare lo sguardo su frammenti di azioni in divenire. Non un gesto concluso, quindi, non una storia obliqua ma in sé completa, con un inizio e un termine: nell'Esposito la realtà è colta in medias res e scomposta in segmenti modulari che sembrano suggerire una ripetizione continua, in loop, del filmato. Brevi universi inceppati, atomi di un montaggio perduto, che sembrano poter acquisire un senso pieno solo all'interno di una galassia - indefinitamente ampliabile e mai davvero conclusa - di film Spressionisti in relazione ritmica fra loro.

Vorrei continuare la rassegna odierna proponendovi due mie opere giovanili.

Si tratta di una coppia di film, simili nella struttura ma concettualmente molto diversi tra loro. Ma non si può criticare un film senza prima, prima vederlo... perciò, ecco il materiale:




LA PIZZA


Regia: Simone Perazzone
Con: Elena Pilotto
Durata: 17"




L'ACQUA

Regia: Simone Perazzone
Con: Elena Pilotto
Durata: 24"




 Nel primo filmato lo sguardo si apre su di un piatto di pizza. Finito. Briciole bruciacchiate, come cenere dimentica di ciò che fu, visione entropica di ciò che sarà. Una premonizione? Un flash forward? Andiamo avanti. L'occhio scorre sul dorso della tovaglia, sorvola delle confezioni di grissini legate da un triste fiocchetto, poste lunghe, orizzontalmente, come una frontiera, una linea che separa regioni di spazio ostili. Ecco un altro piatto di pizza. Finito. Le croste languono, abbandonate, dimentiche, sulla superficie farinosa di ceramica, come ad indicare la sazietà e forse anche la noia, la nausea. Ormai palese il richiamo a Sartre e all'esistenzialismo francese, ecco un'inquadratura che è un chiaro omaggio al maestro d'oltralpe Jean Luc Godard. I gomiti puntati sul tavolo, la maglia nera, la fronte spaziosa pigramente abbandonata contro il pugno che sembra reggere una sigaretta virtuale, i chiari occhi malinconici: la comparsa di Elena Pilotto è come un'epifania che richiama in vita la splendida Anna Karina della nota scena del café di Vivre Sa Vie. Non perché Elena Pilotto sia splendida, sia chiaro. Ma più per quell'aria insieme sofferente e profondamente consapevole. Consapevole e responsabile.  Il suo volto muta rapidamente, prima sembra aprirsi in un dolce sorriso, quasi un segno di sintonia e intesa con quello sguardo che sta aldilà della frontiera di grissini. Poi si abbassa, rassegnato, disilluso, forse colpevole, forse stizzito. Lo sguardo cinematografico stesso, come imbarazzato, si allontana da quel volto pallido e sovraesposto, come circonfuso dalla luce che proviene dall'ampia vetrata sullo sfondo. Ed ecco che - proprio mentre comincia a farsi più insistente il vociare della gente nel locale - appare una parete riflettente, che ci rimanda la silhouette della Anna Karina di Lorazzo che si staglia fra i riflessi degli avventori, come a ricordare che i due seduti al tavolo non sono soli. Non possono mai essere soli. Sempre le nostre scelte devono tener conto del reticolo di altri sguardi che compongono l'universo sociale, e che vengono incorporati, pian piano, come buonsenso, nel nostro stesso sguardo. Il peso di questa consapevolezza deve aver schiacciato il lampo di sintonia che s'era acceso negli occhi dell'attrice, che avevano trovato - immaginiamo - un corrispettivo in quelli incarnati dall'obbiettivo cinematografico. Quale storia si nasconde dietro questo non detto? Quale azione non compiuta si è spenta nella cenere della pizza terminata? Un amore non confessato? Una coppia che non ha il coraggio di lasciarsi? La volontà inespressa di ordinare un fritto misto di pesce da dividere in due? Un rutto in sincrono? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai.



Il secondo filmato, pur simile strutturalmente, è tragicamente diverso per messaggio e atmosfera. Un bicchiere si manifesta davanti ai nostri occhi. Un bicchiere di vetro, lungo, con qualche gocciolina riflettente che si arrampica sulle sue pareti di ghiaccio. Finito. C'è stata, c'era indubbiamente dell'acqua. Ma non è più lì. Ecco allora l'occhio digitale che si allontana retrocedendo, e appaiono un accendino, una tazzina di caffé - pure, finita - , dello zucchero, il tavolo di un bar all'aperto. Un dehor estivo. Un'atmosfera rilassata, idilliaca. Le esigenze fisiologiche e i vizi sono stati soddisfatti, sarebbe il momento adatto per uno slancio di alta teoresi, di ispirazione mistica o artistica. L'occhio digitale infatti si incammina su per il braccio della solita Elena Pilotto, come per frugare nei suoi occhi e ripescare quel cenno d'intesa. La maglia nera, gli anelli vistosi, le mano attenta che sorregge il mento. La tensione qui è altissima: il momento è propizio, ideale. Potrebbe avverarsi come una ierofania l'avvenimento preannunciato e smentito nel film precedente... e invece nulla: due lenti a specchio coprono gli occhi della protagonista, rimandando questa volta la silhoutte del cellulare nokia-fetecchia che la riprende e lo sfondo di avventori del bar. A rimarcare il fatto, ella scuote lentamente ma inequivocabilmente il capo. Allo sguardo digitale non resta che tornare a concentrarsi sulla natura inorganica del bicchiere, dove forse aveva spento un po' dell'arsura provocata dal deserto della socialità. Forse il ricordo mitico di quella fonte di freschezza, forse il vortice vertiginoso della contemplazione estetica lo spingono infine a tuffarsi nell'orbita vuota del recipiente, ormai secco e inutile.

lunedì 30 settembre 2013

Il Dogma Spressionista

Ho sempre sognato di fare il regista. Ma sono pigro. Ora i nuovi potenti mezzi tecnologici a disposizione delle masse mi hanno permesso di realizzare il sogno suddetto. Posseggo uno smartphone - uno smartphone nokia-fetecchia, per la precisione - e tanto mi basta per catturare gli eventi che accadono.
Tuttavia, volendo essere trasparenti, il mio sogno nella sua interezza è: vorrei essere un regista di film cult, d'essai, di quelli da citare durante un vernissage con un bicchiere di brachetto in mano, ottenendo come solo risultato uno sbadiglio metro-goldwiniano della figona in abito da sera che avete messo con le spalle al muro a colpi di aggettivi.
Dovevo quindi trovare il modo di supplire alla mia palese incapacità tecnica, alla penosa scarsezza della strumentazione, all'estemporaneità dei miei filmatini del cazzo.
Così ho deciso di fondare un movimento cinematografico, una nouvelle vague 2.0, che giustificasse la totale inadeguatezza del prodotto facendola passare per ricerca stilistica d'avanguardia.

Ecco quindi che nasce lo Spressionismo.

Il cinema Spressionista è alla portata di tutti, è popolare, ma allo stesso tempo è un cinema di ricerca, sperimentale, che vuole restituire una genuina visione fenomenologica dell'esistente. Fare del cinema Spressionista è facile, divertente e ti permette di essere immediatamente un intellettuale, oltre che un artista.
Basta che ti attieni al Dogma. Il Dogma Spressionista, per l'appunto.

DOGMA SPRESSIONISTA

1- Il film deve durare massimo 34 secondi.
2- Il film dev'essere prodotto utilizzando unicamente la telecamera di uno smartphone o di un qualsiasi attrezzo digitale di nuova generazione il cui utilizzo primario non sia quello di fare foto o filmati. Gettate la vostra reflex da hipsters del cazzo. A noi ci piace il pixel.
3- Il film dev'essere in bianco e nero. Vi concedo il seppia.
4- Vietata la post-produzione.
5- L'audio dev'essere in presa diretta. Vietata qualsiasi colonna sonora extra-diegetica.
6- La decisione di fare il film dev'essere estemporanea. No sceneggiature. No casting. No prove. No preparazione di un luogo adeguato alle riprese. No attesa o creazione della luce giusta. Niente di niente. Si fa tutto come capita. L'attore è se stesso, non un personaggio. O, al limite, è se stesso che fa un personaggio.
7- Il cinema Spressionista non è né narrativo né documentaristico: è allusivo e fenomenologico. Non racconta una storia, la fa sospettare. Non cerca di mostrare un fatto reale, ma uno sguardo sulla realtà.
8- Il cinema Spressionista non è noioso, ma solo perché dura poco. Deve riuscire a trasmettere l'idea di essere pretenzioso pur nella sua inconsistente brevità. Sarebbe meglio se fosse sempre accompagnato da una lunga critica o recensione, anche scritta dal regista stesso.
9- Il cinema Spressionista è una cosa seria.
10- Il cinema Spressionista non è una cosa seria.

Ma poiché sono uno strenuo sostenitore del fatto che un esempio sia meglio di molte parole, eccovi un corto Spressionista che ho girato recentemente e di cui vado molto fiero.



LA PORTA SUL NULLA

Regia: Simone Perazzone
Con: Francesco Pavignano
Durata: 22"


domenica 29 settembre 2013

Stercorario

Vorrei cavalcare un coleottero
fino dentro il culo
del cielo notturno
- lontano lontano -
e spalmare di sterco
la faccia della luna;
imbrattar quei bei crateri,
quelle valli polverose
e candide 
e lattee,
con focaccioni di merda
densa e pastosa,
pulirmi le mano
con la bandiera americana
e gioire villano,
gioire immondo,
di tutto quel pantano.
Nel bel mezzo 
dei vostri sogni
ingenui e sgargianti
sentirete un tonfo,
poi un tanfo
inconfondibile
e svegliandovi
e tappandovi il naso
udirete la mia risata
rimbalzare nell'atmosfera vespasiana
tra le crepe
degli infissi scrostati
delle vostre camere in affitto.
Fuori dai vetri
che separano il sonno
dai lampioni,
aldisopra dei palazzi
circonfusi di marron,
la luna come un neo
sul labbro della notte,
come una biglia di guano
scagliata nella via lattea,
come un cioccolatino di merda
in bocca al buio,
galleggerà odorosa,
sempre muta,
apparentemente immota
eppur orfana di pallor.



venerdì 27 settembre 2013

D'istante

Esistono universi globulari
tra le palpebre
e i succhi glauchi dei bulbi:
veleggiano improfetabili
- pollini su pellicole acquee -
in attesa d'essere estratti
dalle mani cieche
d'un bimbo esposto,
putto di fortuna.

Esistono fabbriche sotterranee
dove bambini cinesi
cuciono la realtà.
Ho visto sotto i tombini
operai polacchi
tappare le falle
dell'esistente,
cambiare i tubi muffiti
del buonsenso.
A Tokyo stanno progettando
metropolitane invisibili
per gli urli
e i sorrisi.

Abitare una distanza
è passeggiare il silenzio
di portici dechirici
mano nella mano
con un presente paraplegico.



venerdì 6 settembre 2013

Ricettario biopolitico - Pasticcio di corpo docile

Verso metà agosto, al riparo di un chiosco - a due passi da un torneo di scopa alcolica ottuagenaria - ci trovammo a discutere di corpi di condannati, di questioni di genere, di esperienze personali o meno di reclusione e limitazione della libertà d'azione. Eravamo un piccolo manipolo e si è chiacchierato amabilmente, sorseggiato birre e the freddi, immaginato molto. Questo è il prodotto del nostro workshop: spero che sia piacevole da gustare come per noi lo è stato da preparare. È tutto sotto creative commons, come qualsiasi cosa troviate su questo blog; quindi prendetelo, scaricatelo, stampatelo, diffondetelo, feedbackkateci... 
Buona lettura.

(Ringraziamo organizzatori e artisti del progetto ANGAR per la disponibilità e gli spazi).












mercoledì 4 settembre 2013

Cosa fare se investite un cinghiale

Premetto che il titolo nella sua esaustività dovrebbe essere: cosa fare se malauguratamente investite un cinghiale senza ucciderlo con una Ipsilon 10 scassata mentre state viaggiando a moderata velocità su una strada provinciale piemontese intorno a mezzanotte. Questo perché una sana dose di innato empirismo (notare il bell'ossimoro) non mi permette di generalizzare una singola esperienza in modo da ottenerne una legge universale scientificamente accettabile. Per sentirmi legittimato a far ciò dovrei provare ad investire cinghiali in molti altri luoghi e con altri mezzi e a diverse velocità - chessò, con una moto d'acqua dentro ad una piscina olimpionica - ma ho paura che la cosa si riveli illegale e dispendiosa. Nonché fondamentalmente inutile.
Perciò preferisco limitare il mio vademecum ad un singolo caso che, sì, risulterà per i più poco utile a causa della sua specificità, ma spero altresì che possa rendere la vita più semplice anche solo ad uno di quelli che lo leggeranno.
Fatta questa precisazione, il primo consiglio è molto semplice: chiamate gli sbirri.
Nel senso: prima parcheggiate in un luogo tranquillo, constatate il danno subito dalla macchina e - dio non voglia - dalla vostra bella persona, cercate di capire se la bestia è viva, morta o x (nel mio caso x, poiché se n'è fuggita nella boscaglia al trotto, senza neanche fermarsi a chiedere scusa) e poi chiamate gli sbirri. Questo perché l'assicurazione tende a pretendere che il fatto sia accertato da un verbale delle forze dell'ordine. Potrà apparire sgradevole, ma la vostra parola vale meno di guano per un assicuratore. Anche se corredata da fango, sangue e setole nere appiccicati a ciò che resta del veicolo in questione.
Ma fatelo subito, di chiamare gli sbirri, perché io l'ho fatto il giorno dopo e quelli non son più voluti venire. Giuro. Se la son presa. Lo sbirro è così, sensibile: se non lo metti subito a parte di tutte le tue vicende personali ci sta male.
"Ma come, non ci ha avvisato subito?"
"Eh, no. Può sembrarle strano, ma non avevo mai accartocciato la macchina contro il culo di un cinghiale di due quintali, quindi non sapevo di dover chiamare immediatamente la sbirrolizia".
Quindi, sticazzi, il verbale non me l'han fatto.
Dopo tutto ciò, è probabile che vi rendiate conto che la macchina non riparte più. Sarà che il radiatore è magicamente scomparso, sarà che la ruota sinistra converge al centro peggio del PD, sarà che da sotto piscia un liquido non ben decifrato... fatto sta che da lì non si muove.
Perciò comincia la trafila divertente del carro-attrezzi.
Tendenzialmente il carro-attrezzi dovrebbe essere compreso nell'assicurazione: c'è un numerino nel vostro tagliando, un simpatico numerino verde, che promette di fornire assistenza europea 24 ore su 24. Tu chiami e ti risponde un nastro registrato che ti chiede gentilmente di schiacciare 1 se hai bisogno di un traino. Poi ti chiede di schiacciare altri numeri. Tu li schiacci come si schiacciano brufoli di bile. Dopo una serie di 1, la voce registrata, da mascula che era, diventa una donna e ti dice di aspettare in linea per poter parlare con un operatore. Tu aspetti, e intanto pensi che non avevi mai preso in considerazione l'ipotesi che le voci delle segreterie potessero prendere una decisione così ardita come quella di cambiare genere e sesso. Probabilmente però sono solo pregiudizi tuoi. Perso nei tuoi vagheggiamenti, vieni ricondotto alla concretezza dalla voce transessuale che ti ricorda l'importanza di rimanere in linea. Parte una musichetta allegra e ritmata. La scena si ripete per circa cinque volte, dopodiché decidi che vaffanculo. Riprovi e rifanculizzi tre volte. Niente. Spostare la macchina da lì ti costerà una settantina di euri in supplemento all'inculata e alla rottamazione. Grazie Zurich (questa è cattiva pubblicità, a'nfami).
Ora, c'è un'ultima inutile cosa da fare: contattare l'Ufficio caccia e pesca della provincia di pertinenza. Ivi ti spiegheranno dettagliatamente (e con quella rara disponibilità dettata dalla noia di chi non ha un cazzo da fare) come fare per presentare sulla loro scrivania una richiesta di risarcimento danni. Tutto questo sarebbe estremamente civile, dato che nella strada in questione non erano presenti segnalazioni di pericolo attraversamento animali selvatici. Peccato che l'ufficio suddetto non riceva fondi dal capoluogo da circa un paio d'anni, il che rende qualsiasi richiesta di rimborso un mero, divertente esercizio di abilità burocratica; un passatempo per pensionati o disoccupati.
Intanto il cinghiale, evento inatteso, sfuggente grumo di pelo nero, si divincola dalle maglie del senso umano; trotta oltre la biscia di cemento, lontano dalle lamiere arricciate, sbattendosene degli attraversamenti pedonali e dei cartelli, delle frecce e degli assicuratori. Lui grufola e tira dritto. Per un istante il mio universo ha colliso col suo, e ha avuto la peggio.



martedì 27 agosto 2013

Omaggio a un cane

Bambino, ero. Bambino, ricordo. Occhi grandi, gambe corte, ego smisurato, immaginazione irrequieta: sapete, no? Tutti son stati bambini, chi più chi meno. E il periodo preciso dirvi non so; poteva essere quell’era della vita in cui di anni ne conti soltanto sulle dita delle mani, sicchè i piedi rimangono liberi e ancora puoi correre in lungo e in largo, dove ti garba.
Lasciata alle spalle la casa nuova dove pochi mesi addietro - a tradimento - la famiglia mia aveva traslocato, mi facevo trascinare sotto il sole frastagliato d’inizio estate da un batuffolo di pelo nero, nuovo acquisto di quell’anno. Preso forse per placare il mio capriccio costante, la mia necessità d’un compagno di giochi, paziente e sommeso, pronto a darmela vinta, Birillo si rivelò una faccenda un po’ più complessa; che, sì, il cucciolo di cane ignorava l’arte del sillabare, ma anch’esso aveva pretesa di fanciullezza. E allora occhi grandi, gambe corte, ego smisurato e immaginazione irrequieta valevano anche per quella creaturina, che domare si rivelò impresa impossibile e fonte di frustrazione perenne.
“No! Birillo, vieni qui! No pipì lì, no! No! Birillo...”
Inutile. Un arco biondo già disegnava l’aria tra pene e muretto grigio. Poco pudore, poco rispetto dell’altrui proprietà. Bisognava educarlo.
Ma il caldo seccava le parole in gola, lasciava poltiglia acida da deglutire o sputare, e gl’occhi incerti sfruttavan le ciglia lunghe per difendersi dal bagliore accecante dell’estate cittadina. Non era poi così grave, si poteva soprassedere. Marachelle di bambino. Marachelle.
Capita talvolta di sentir leggero il capo e sentir danzare intorno rumori come di ronzii - ne parlo da poco esperto, badate, che la mia pressione non è mai scesa sotto ai limiti di guardia . Allora la vista si fa sfocata e piccoli pallini di luce pulsano lungo l’iride, come api colorate o disturbi catodici. Ammasso di elettrodomestici difettosi: sempre questa l’impressione che mi ha dato il corpo.
Il caldo. Il caldo, sicuro - si dice un adulto - ho mangiato poco, è logico. Non c’è problema - suggerirebbe la mamma prudente, dolcemente vestita nel suo sorriso, versando un bicchiere d’acqua fresca e stemperandovi, accurata, una bustina di zucchero bruno. Ma fuori casa, un bambino, si che sa... pensa: magari son drogato, magari quella bustina di figurine che ho raccolto ieri da per terra... ma che mi viene in mente mai, mi starò sbagliando; basta stringere forte gl’occhi, un po’ di pressione... ecco così, abbassar la testa quel tanto...
Lampo di buio.
Danza di fate colorate, elettriche, dionisiache baccanti dell’iride divorano l’immagine e ne risputano a piacere contorni inventati, forme inusitate. Alice nel paese delle meraviglie.
Un fischio come di flauto dall’aggregato di mattoni arancioni di fronte alle casette a schiera: Pan tra i muratori dirige i lavori del cantiere con festosa disciplina. Il cane bianco della casa accanto, incomprensibilmente eretto su due zampe, persiste nel ripetere con foga “cespuglio” nell’idioma degl’anglosassoni - forse, veggente, voleva svelare al mondo o quanto meno a me il nome del prossimo presidente degli States. Un re alato, nell’etere azzurro sopra al mio capo, urla a squarcia gola la prima lettera dell’alfabeto, come a ricordarmi ch’io sono la zeta - nonostante ancora ignorassi il segreto dell’Ibis, sacro Toth d’egitto, Ermete mio amor. Birillo, nel mentre, si cimenta in una titanica, eterna lotta con la verde e grassa mantide bigotta. Lupo d’Odino, fiuta la sorgente.
Lampo di luce.
Una rete di rame mi divideva dal giardino che stava per esser mutato nell’ennesima villetta. Ronzio sommesso. Alzo lo sguardo, mi spavento. Sgomento, verde sgomento.
Un animale mai visto, dalle fattezze di piccolo elicottero, stava sospeso ad un palmo dal mio viso.
Corpo allungato dall’aspetto tubiforme, ali lunghe e sottili, trasparenti, vibranti, testa formata da due belle sfere brulicanti d’occhi, quasi un culo.
Rimango lì, atterrito. Birillo, come di consueto, non dice nulla.
“S-sei velenoso?”, domando trepido.
Non risponde.
Continua a fare su e giù di pochi centimetri, come fosse attaccato ad un elastico trasparente.
Mi fissa, mi mette in soggezione.
Poi si stufa - forse mi trova carente di stimoli d’interesse - e si posa sulla cima della rete di rame, come un Karate-Kid in equilibrio sul suo paletto. Fisso. Immobile.
Giro lo sguardo, prima a destra, poi a sinistra: una lunghissima fila di esseri simili al primo, alteri e superbi, è posata sulla sommità dei fili della grata.
Mi guardano? Non mi guardano? Migliaia di occhietti fissi nel vuoto, laconici.
Mi sento giudicato. L’atmosfera è afosa, kafkiana; sembra un’aula di tribunale.
Pare che da un momento all’altro una di quelle strane divinità mi debba indicare con la zampetta sottile e flessuosa, come a dare l’ordine all’intero pantheon di scatenare la sua ira funesta su di me.
Retrocedo di un passo.
Lancio uno sguardo al soldato Birillo per saggiarne lo stato di forma: occhio vispo, gamba agile e pronta; non pare aver riportato gravi danni durante l’incontro con il mostro-mantide, che giace schiacciato al suolo in una poltiglia verdastra e si lascia andare agl’ultimi scatti nervosi di zampa, come son soliti gl’insetti prima di morire.
Un cenno del capo sancisce un tacito accordo tra bambino-uomo e bambino-cane.
Un’ultima occhiata timida agl’immortali re del tempio di rame, una preghiera sommessa affinché le statue insettiformi non mutino in mostri viventi carnivori e... via!
Guizzar di muscoli giovani; i due inesperti ma rapidi eroi imboccano di slancio il sentiero di piastrelle rosa che li riporterà al castello tra le braccia accoglienti di re e consorte.