domenica 28 aprile 2013

Non vorrei crepare


Non vorrei crepare
prima di aver conosciuto
i cani neri del Messico
che dormono senza sognare
Le scimmie dal culo nudo
divoratrici di fiori tropicali
i ragni d'argento
dal nido farcito di bolle
non vorrei crepare
senza sapere se la luna
sotto la sua aria 
da falsa moneta stonante
abbia un lato acuto
se il sole sia freddo
se le quattro stagioni
sian poi quattro per davvero
senza aver tentato
di sfilare in un vestito
lungo i larghi boulevard
senza aver gettato uno sguardo
nello spioncino delle fogne
senza aver ficcato il cazzo
nei posti più bizzarri
non vorrei finire
senza conoscere la lebbra
o le sette malattie
che si buscano laggiù
né il bene né il male
mi farebbero penare
se solo sapessi
che sarei il primo a farci la spesa
e così, dalla a alla zeta,
tutto quello che conosco
tutto quello che apprezzo
e che so che mi piace
il fondo verde del mare
dove fili d'alghe danzano il valzer
sulla sabbia ondulata
l'erba grigliata di giugno
la terra che si crepa
l'odore di conifere
e i baci di quella
che di qua che di la
che - voilà - è proprio bella
la mia Orsa, la mia Ursula
Non vorrei crepare
prima di aver consumato
la sua bocca con la mia bocca
il suo corpo con le mie mani
il restante coi miei occhi
e non dico di più perché è bene
restare riverenti
non vorrei morire
prima che abbiano inventato
le rose eterne
la giornata di due ore
il mare in montagna
la montagna in mare
la fine del dolore
i giornali a colori
tutti i bambini contenti
e tanti trucchi ancora
che dormono nei crani
di geniali ingegneri
di gioviali giardinieri
di socievoli socialisti
di urbani urbanisti
e di pensierosi pensatori
tante cose da vedere
da vedere e da sentire
tanto tempo da attendere
cercando dentro al buio.

E io vedo la fine
che gorgoglia e che giunge
con la sua gola orrenda
e che m'apre le sue braccia
di ranocchia storpia.

Non vorrei crepare
No monsieur, no madame
senza aver assaporato
il gusto che mi tormenta
il gusto che è il più forte
non vorrei crepare
senza aver prima gustato
il sapore della morte...

(Abbastanza libera traduzione di Je voudrais pas crever di Boris Vian)






giovedì 25 aprile 2013

Il bosco è silenzioso


Il bosco è silenzioso.
Il vento gelido della notte si sta alzando.
Ho freddo.
La gamba è rigida, non riesco a muoverla. Una macchia scura tinge il verdone delle braghe; il gelo ha impedito al sangue di colare, la neve è rimasta bianca. Nemmeno una goccia di rosso a smangiarne il candore.

“Berto, boia che freddo!”. 

Dio, che voglia di una sigaretta.
Mi frugo in tasca con calma, non c’è fretta. Quando il tempo sta per finire non c’è fretta.
Qualche minuto fa correvo, invece. Boia, se correvo.
I latrati dei cani, le calze zuppe d’acqua ghiacciata, gli spari, i passi di corsa...
E gli ordini: parole secche, cattive. Non capivo quella lingua, non era umana; era come ruggine gracchiata da mandibole di metallo.
Però capivo che volevano fotterci, me e il Berto.

In tasca solo castagne, proiettili freddi e qualche fiammifero... neanche un mozzicone di toscano, di quelli che fumava il Mosca. Povero diavolo, il Mosca. 
Era un macellaio, si unì alla brigata ché aveva disertato la leva; non voleva andare in Russia per via del freddo, diceva, che lui mai che l'ha sopportato, il freddo.
Aveva un bel da fare a spostare vacche a destra e manca per mostrare la ricchezza degli allevamenti italici, il Crapapelata, se poi i soldati del Regno che erano diretti verso la Russia avevano in dotazione la stessa divisa di quelli che partivano per l'Egitto. E lui, il Mosca, queste cose le sapeva perché era macellaio e di vacche se ne intendeva, e si era accorto che eran sempre le stesse. E poi aveva uno zio marxista, che quello di poveracci anche se ne intendeva, e si era accorto che le divise eran le stesse. E allora ci faceva tutti 'sti discorsi qua, sul proletariato e le guerre dei borghesi combattute dai noialtri poveracci e i Lenin e i Stalin...
“Mosca, boia mondo!... senti che freddo qua, altro che tutte le Russie e i Lenin!”
E però lui non può mica essere qua al mio posto, che se no ci sarebbe anche. Ma una sera durante un’azione notturna sto diavolo s’era acceso uno di quei sigari spuzzolenti, e subito un dito di metallo gli ha penetrato i polmoni assieme al fumo ancora caldo.
Quelli ci hanno gli occhi ovunque. 
E così, zitto e Mosca.

“Che freddo, ve'! Puttanalabiscia”.

Mi lascio andare all’indietro e incontro il tronco solido di una betulla. La pianta mi sorregge la schiena con accondiscendenza, premurosa come una sorella. Chissà come sta la Betta. Cara, lei. Piangerà. Ada no. Ada è forte. Ada è testarda, arida. Stringerà i pugni e continuerà a stendere la pasta sul tavolaccio della cucina, come se la staffetta non avesse detto niente. Solo con più rabbia, con più determinazione; quasi che sotto al suo mattarello ci fosse un ufficiale crucco, invece della pasta per gli agnolotti di Natale.
Vedo il mio posto, vuoto, alla cena della vigilia. I parenti come statue del presepio, rigidi, in attesa; la lieta novella che non arriva mai.

“Il caneladro, che freddo, Berto!”

Mi giro e vedo il Berto: è lì, lungo, sdraiato al mio fianco. Le mani, a coppa sul ventre, reggono le budella rosse e fumanti che gli escono dal foro; la faccia, digrignata nell’ultima smorfia di dolore, ormai è bianca.
Gli sbottono il giubbotto e poggio il palmo aperto della mia mano sul suo petto. Immobile. È morto.
Fino a pochi minuti fa stavamo correndo come quando, da ragazzini, scappavamo dal frutteto del Loris. “Sei lento, Berto!”, gridavo, io. E intanto sudava, lui, facendosi rosso nelle guance come le mele che gli cascavan dalle tasche. “Corri, che una volta di queste il Loris ci spara il pepe nel culo!”

"Fa ben freddo neh, Orcalabalena!"

I fucili tedeschi, più secchi e inumani delle grida dei loro padroni, ci sparavan dietro, ad altezza d’uomo.
Eravamo in quattro questo pomeriggio, dovevamo studiare il perimetro del deposito per poterlo attaccare di sorpresa non appena fosse calato il sole.
Non so come avessero fatto a sapere dell’azione, forse qualcuno aveva parlato.
Il primo a morire fu il Gian. Caduto giù come un ramo potato, dritto, senza fiatare.
Subito ci mettemmo a correre, come che avessimo il demonio alle calcagna; io e il Berto in una direzione, il Luigi dall’altra.
Dopo qualche minuto li sentii avvicinarsi.
Un botto. Mi voltai: un fiotto rosso sulla neve.
Avevano preso il Berto alla pancia, lateralmente. Ma era grosso, il Berto, aveva una schiena che pareva un mulo degli alpini; dopo aver barcollato un attimo si tappò il buco con le mani e riprese a correre meglio che potè. C'era una piccola scarpata, poco più avanti, che portava a un posto riparato. Correre non si poteva più.

“Che freddo dell'ocatroia!”.

Gli chiudo gli occhi.
Gli riabbottono il cappotto, e la Madonna Nera mi manda il miracolo: dalla sua tasca cade una bella sigaretta. Rimango un attimo lì, stupito, incerto sulla bestemmia da trattenere.
“Sicuro che non la fumi, Berto?”.
Il Berto fumava un sacco, e aveva pure la tosse. Ma quando che gli chiedevi una sigaretta non te la dava. Mai. Questa volta, però, non rispondeva mica. E allora, dato che non s'è mai visto in chiesa il disegno di un angelo che fuma, e che chi tace acconsente, me la prendo io.

“Che freddo, vaccamerda!”

Mi frugo in tasca con una lentezza rassegnata.
Attorno ormai è calato il buio.
Il bosco è tutta un'orchestra inquietante di strumenti invisibili. Mi sembra di essere osservato da mille paia di occhi. Tutto è fermo ma pronto a scattare, nell’ombra.
Trovo il fiammifero e faccio per accenderlo.
Nella magia povera dello zolfo, rivedo il sorriso di mia madre, le mani contadine di mio padre, l’Ada e la Betta, il vecchio Loris.
Si assiepano ai lati del mio sguardo il Gian e il Luigi, tutti i compagni di missione, l'intera brigata.
Sento di nuovo il proiettile che mi sfiora l'orecchio e buca la pancia al Berto, e quell'altro che mi si conficca nella gamba
Vedo ancora la piccola radura coperta dove ci fermiamo io e il Berto, feriti e ormai stremati, il suo viso contorto in una smorfia di morte dolorosa.
Poi, per ultima, mi balena davanti l’immagine del Mosca, che s’accende il suo bravo toscanello.
Rabbrividisco.
Alzo le spalle, scrollandomi di dosso la neve caduta dalla betulla.
Esito un attimo.
Mi sistemo la sigaretta bene in bocca e avvicino il fiammifero.
Boccata.
Un lampo di fuoco.
Fumo.
Che freddo.


martedì 23 aprile 2013

L'Investigatore Tossico

"Sono il terremoto!" - Truntruntruntrun trun!

Stavo scrivendo al pc, aggrovigliato alla tastiera, la schiena troppo flessa, le gambe troppo avanti, il mento sfuggente come lo sguardo di quelle donne con troppi figli sulla metro di Milano alle sei di sera.
Trattavasi di un resoconto di memorie di una sera precedente. Trattavasi - sì - si trattava.

Quand'ecco: tran!
E poi: "sono il terremoto!".
E poi - truntruntruntrun. E trun!

Mi giro sconsolato, la palpebra calante, il cuore già messo a tacere, la voce del rimprovero paterno in gola.
Mi giro e mi ritrovo a un palmo dai peli grigi del suo petto. Una gocciola di bava cala calda sul mio naso.
Alzo lo sguardo e lo vedo - vedolo - dietro alla falange dispiegata dei suoi denti quadrati, tra i fiati miasmatici dei suoi respiri irregolari: un quarantaseienne obeso afflitto da gigantismo fasciato in una tutina di lycra aderente viola e gialla, il cranio rasato attraversato dal semiarco di una cicatrice frastagliata.
Si chiama Daino. Paolo Daino. È il mio amico immaginario handicappato.

Quando ero bambino avevo paura di un sacco di cose. Tipo dei sotto scala, delle piscine e del rumore del frigorifero. Così ho pensato che se ero un supereroe, col cazzo che avevo paura. Col cazzo proprio: ero io che poi facevo paura, se erolo, un supereroe. 
E allora - quando non c'erano adulti - ero SuperSimone, ed ero davvero potente. SuperSimone era fatto tipo come me, però già grande di corpo, però con la mia faccia di bambino seienne con due occhioni neri così, però vestito con il costume di Superman, però con due "S" (beata innocenza!) sul petto e con dei guanti di legno con gli spunzoni. Come facesse SuperSimone a compiere le più elementari operazioni che prevedono l'utilizzo della motricità fine, indossando dei guanti di legno con gli spunzoni, è una domanda da stronzi a cui non intendo rispondere. Anche perché, a SuperSimone, di accendere fiammiferi, segnarsi il numero di telefono di qualcuno sull'agendina, indicare con precisione piccole parti meccaniche, fare il segno dell' "OK" o tastare un melone per valutarne la maturità, non gliene fotteva sega. SuperSimone tirava cazzotti ai fantasmi dei sottoscala e agli squali-balena delle piscine e alle verdure mutanti che crescevano nel frigo. E per queste cose qua, dei guanti di legno con gli spunzoni sono proprio il massimo. Fidatevi.
Fatto sta che SuperSimone non poteva mica combattere le paure di Simone da solo, senza aiuto e supporto.
Ogni eroe ha bisogno di una figura di sostegno, di un coprimario, di un gregario buffo e infaticabile che gli regga il gioco e riempia i buchi di sceneggiatura con spiritosi siparietti. Dylan Dog ha Groucho, Robin Hood ha Little John, Capitan America ha Bucky... e SuperSimone aveva l'Investigatore Tossico.

L'Investigatore Tossico era un figo e risolveva un sacco di casi. Tutti in città si chiedevano perché si chiamasse così, ma non è mica facile rispondere. Un po' è perché aveva la tosse. Ma quando raccontai a mia cugina - quella bella che la amavo - che L'investigatore Tossico si chiamava così per i costanti sforzi di petto, lei mi prese sonoramente in giro. Allora decisi che, sebbene avesse comunque una brutta forma di tosse cronica, si chiamava così perché respirava le pastiglie di droga. Ma anche questa esegesi sembrava riscuotere alcune preoccupazioni nella cugina. Allora finii per decidere che - nonostante fosse comunque gonfio di catarro e psicofarmaci, che ammettere di avere sbagliato e morire era la stessa cosa - si chiamava così perché portava davanti alla faccia una mascherina di quelle da chirurgo, per nascondere al mondo il suo alito mortifero.
L'Investigatore Tossico era molto molto muscoloso, anche se non si allenava mai e non aveva superpoteri, ed era vestito con una tuta di lycra viola e gialla sotto ad un impermeabile marroncino con le maniche strappate per mostrare gli strabilianti tatuaggi da galeotto. L'Investigatore Tossico aveva un nome d'arte americano, ma in realtà era nato a Chiavazza e si chiamava Paolo. Si, insomma, Paolo Daino.
Poi si sa come vanno le cose.
"I bambini muoiono e i loro cadaveri si chiamano adulti", c'era scritto sul diario di classe del mio amico Nicolò. E gli amici immaginari di un cadavere? E gli amici immaginari di un cadavere che ostentano una predisposizione alla psicosi - nessuno si metterebbe mai una tutina di lycra di quei colori sotto ad un impermeabile sbracciato, dovevate subodorarlo - e che hanno passato gli anni della loro giovinezza ad assumere psicofarmaci per via rinale? Dove vanno?
Beh, per un po' è stato in clinica, P. Daino. Gli hanno estirpato quel brutto vizio. Non gratis: quella brutta cicatrice è la polaroid dell'asfalto che si avvicina rapidamente alla testa. Ma poi è uscito, è ritornato alla vita. Ma i neuroni, ciao. Quelli lo avevano lasciato. 
Me lo sono trovato un giorno davanti alla porta di casa: si ricordava dove abitavo. Aveva riconosciuto il sottoscala. Io invece ho fatto fatica a riconoscerlo, sul subito. Era ingrassato, non portava più l'impermeabile e la mascherina, e i tatuaggi, blu e scoloriti, colavano oblunghi sui mastodontici bicipiti sgonfi. "I-investigatore tossico? Cosa cazzo...?". 
Il suo sorriso sdentato mi convinse del fatto che ero responsabile della sua vita. Una fantasia si può creare e strangolare come nulla. Una fantasia rappresenta per una persona distratta ciò che è una bella donna in calze a rete che ritorna a casa tardi la sera in un quartiere buio e deserto per un serial-killer. Ma persino un serial killer potrebbe farsi delle remore ad ammazzare il suo vecchio gatto pulcioso - quello stesso gatto che l'ha visto tornare a casa ogni sera con un nuovo sacco nero sulle spalle, quello a cui non è mai mancato un pezzetto fresco di fegato.

"Sono il terremoto!" - Truntruntruntrun trun!

Mi volto e lo vedo, lo sguardo accecato da cataratte d'idiozia, la lingua gonfia che trasuda insensatezza, come una bistecca al sangue posata su un letto a baldacchino.
Lo vedo e lui mi vede, e si accorge della lacrimuccia, e mi abbraccia con quelle braccia elefantiache. Mi stritola e mi stringe al petto unto, che sa di sudore salato e lettiera. 
Io accenno un tentativo di divincolamento, ma non serve a niente. Ci vorrebbero tre All Blacks per spostarlo.
"È perché è demente", mi dico. "È perché non riesce a capire che la sua vita è un'agonia di tosse ed emicrania", mi ridico. "Non si è mai visto, altrimenti, un amico immaginario sopravvivere al cadavere del suo bambino" mi convinco.
Ma quando nell'abisso degli sguardi altrui vedo sfiatare cetacei immensi, e una paura ancestrale mi blocca lo stomaco e gli occhi, sento le mie mani farsi di legno e punte, incapaci alla carezza, alla stretta, all' "OK". E mi ritrovo, sorpreso, a bisbigliare il nome dell'Investigatore Tossico.



giovedì 18 aprile 2013

La zingara addormentata

C'è una zingara addormentata
e addormentata sulla spiaggia
e posato accanto un mandolino
e un mandolino con cui ha suonato
una serenata per innamorarsi
un po' di fado per ammalarsi
una ninnananna per addormentarsi
e accanto allo strumento
in fondo sulla sinistra
c'è un vaso che non la conta
e non la conta proprio giusta,
sì, un vaso: un vaso e basta
e però non si vede dentro
e può essere vuoto
e può essere pieno
e pieno zeppo di spavento
e in alto su una duna
c'è un leone, sì un leone,
un leone che annusa la luna
ha la criniera controvento
e lo sguardo fisso e giallo
di chi non è affatto contento
e voglio vederti,
ad essere contento,
spettinato e controvento!
Chissà se ha già mangiato...
e infatti fissa la zingara
dalla pelle scura
che dorme e dorme
e russa e canta
e non ha mica paura
e anche se sogna
sciarpe e miele
e moto rosse
è a piedi scalzi
e doman mattina 
quasi sicuro
avrà la tosse
col vento che tira
e che spettina
e che alza
la gonna alla sabbia
e la voce al mare
e fa danzare
nella notte
le stelle ubriache
con le zanzare.



venerdì 12 aprile 2013

Donkey Monk


Thelonious
piri-chi-cchietta tasti
bianchi guasti avori denti
marce-scienti
mugola brugola e scampanella
sbagli-
a capo
succhia flussi eterei giocando
a nasco-mb-dino col -mbmbmb- contra-mb-basso
saltella sul sax, 
rodea, 
phonomachieggia, 
appeso all'ottone con l'unghie lunghe d'oro e ricurve, conturba la tuba, la doma e noncadenoncedenontace procede 
finché poi soggiace
...





...
pik
...








































...
pin-piripen-pik
...

















...
appena "pi"
...






































...
pek
...


e poi gonke-gonke-gonke-
morde e riprende
s'avvolge alle bachette
ride dietro al battere
barabalbet-ta e sgocciola
            s
                 a
                l
                    i
             v

      a 
tra piatto e piatto,
trova sempre fessure
nel t/e/m/p/o distratto.
Sgrammaticare
negro
e contorto:
Tataratam-tamtam!
L'idiozia è una disciplina
la catatonia una tecnica
l'errore una matematica
il rumore una cattedra
con la coda e le zanne
che castra e devasta,
sparagma e strazia
chi non sa distrarsi
chi non s'astrarsi
chi non sa estrarsi
-coniglio!-
dall'emisfero destro
in cerca di catarsi.




Faremo gli occhiali così


Questa storia - come tante altre - comincia intorno al fuoco.
È il III millenio a.C. sulle coste della Fenicia. Marinai dormono sulla spiaggia. 
Quasi l'alba. Le braci sono spente. Fa freddo. 
Così freddo che uno si sveglia, sbadiglia e guarda ciò che resta del falò: cenere nella sabbia. Poi si stropiccia gli occhi e nota che c'è qualcosa tra la fuliggine che riflette i primi raggi del sole nascente. S'avvicina, curioso. Un solido amorfo e vischioso, simile a ghiaccio sporco, scintilla magico alla luce del giorno.
Tecnicamente parlando - per i chimici - è ossido di silicio solidificatosi senza cristallizzazione.
I fenici non lo sapevano. Ma sapevano navigare in tutto il mediterraneo. E vendere. E lo diffusero.
I greci non lo sapevano. Ma sapevano osservare la Natura e desumere leggi. E ci costruirono lenti per concentrare i raggi solari e appiccare il fuoco.
I romani non lo sapevano. Ma sapevano godere degli spettacoli pubblici. E lo usarono per osservare meglio dagli spalti gli scontri tra gladiatori.
I barbari non lo sapevano. Ma sapevano essere tipi pratici. E ne migliorarono la tecnica di produzione.
Gli arabi non lo sapevano. Ma sapevano conservare gli scritti antichi e rifletterci sopra. E rinnovarono l'ottica geometrica.
I veneziani non lo sapevano. Ma avevano un impero commerciale e ottimi bottegai. E lo usarono per costruire occhiali da esportare in tutto il mondo.
Gli olandesi non lo sapevano. Ma erano bravissimi artigiani. E ci costruirono lenti sempre più piccole e precise.
Galileo non lo sapeva. Ma era un genio. E ci costruì il cannocchiale.
(Per alcuni questo è l'inizio della scienza moderna. Il cosmo? Uno spazio infinito. La Terra? Un granello di sabbia. L'uomo? Una scimmia glabra. Anzi - che dico - un acaro, una bestiolina nuda e abbandonata in un universo senza bordi e frutto del caso. Non il prodotto più alto della creazione. Forse neanche l'unico animale intelligente. Forse esistono infiniti mondi. Forse esistono esseri più evoluti. Forse ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne possa pensare la filosofia. Forse...)
Anche Robert Hooke e Antony Van Leeuwenhoek non lo sapevano. Ma erano geniali dilettanti. E ci costruirono il microscopio, perfezionando gli strumenti di alcuni artigiani olandesi.
(Per alcuni questo è un momento di svolta per le scienze della vita e la chimica. L'uomo? Un'agglomerato di minuscoli “animaletti”. Un grannello di sabbia? Un pianeta. Un centimetro quadro? Uno spazio infinito. Non esiste più nulla che non valga la pena di osservare. Forse la ruggine è una foresta. Forse un pezzo di sughero è un monastero. Forse una goccia d'acqua è popolata come un oceano del Precambiano. Forse in ogni cosa si celano mondi popolati da forme di vita sconosciute, o il segreto della vita stessa. Forse...).
L'uomo oggi - grazie al vetro - ha potuto vedere che il vetro è ossido di silicio solidificatosi senza cristallizzazione.
In compenso, non sa più vedere molte altre cose.



giovedì 4 aprile 2013

Ai confini del peggio

Cara entità aliena
che con occhi
a me incomprensibili
leggi
queste poche righe,
devi sapere
che nell'universo
peggiore possibile
c'è la galassia
più buco di culo
di tutte le galassie,
e in essa galassia
il sistema solare
più buco di culo
di tutti gli ammassi
planetari,
e tra le palle di guano
che ruotano
e ruotano
intorno alla stella
votata all'unisono
su youtube
come la peggiore stella
dell'eternità,
sta una palla
più di guano 
delle altre.
E in questa 
caccola astrale,
nel suo continente 
più macilento,
nello stato
più disastrato,
la regione
più inospitale
ospita la provincia
meno rilevante
che la storia di quella
palla di guano trottante
possa ricordare.
Nel territorio più grigio
della livida provincia,
nel suo comune
più comunemente
aberrante,
nella palestra
più triste
mai vista,
il socio iscritto
meno tonico
sta per mollare
la scorreggiona
più puzzolente
della sua carriera
di scorreggiatore
di scorregge
molto puzzolenti.
Egli, allora,
dribblando le più meste
macchine da palestra
mai fabbricate,
entra nel cesso
più lurido
del continente,
e apprestandosi
alla detonazione
più imbarazzante
e squaqquerona
del suo giovedì
più insignificante,
nota fuori
dalla finestra
più scrostata
mai aperta,
oltre la grata
più arrugginita
mai notata,
sotto la pioggia
più umida
del giorno più uggioso
di quella pessima
primavera,
il più bel ramo 
di fiori bianchi
di tutti i rami 
di fiori bianchi
di tutti gli alberi
che hanno rami
che fanno fiori bianchi
di tutti gli spazio-tempo
che prevedono l'esistenza
di piante siffatte.

Questo per dire,
caro amico alieno,
non tanto o non solo
che c'è bellezza
in ogni dove;
quanto più
che c'è un limite
persino al peggio.
E ora,
- perdona -
finalmente
scorreggio.