domenica 13 gennaio 2013

Parlare una donna

Un giorno, anni fa a Torino, mi è capitato di ascoltare due Wu Ming - se non sapete chi sono, innanzitutto vergogna, poi questo e poi quest'altro - parlare di tutto un po'. Ho rimosso molte cose, ma non tutto. Un tema che all'epoca mi lasciò abbastanza indifferente e che adesso mi piacerebbe riprendere in mano - e che poi è l'argomento di questo post - è quello della difficoltà di rappresentare personaggi femminili per un autore maschile. Allora non vedevo il problema: pensavo - e in parte penso tutt'ora - che gli individui nascano sì determinati biologicamente per quanto riguarda il loro sesso fisiologico, ma che nella loro essenza tutti gli esseri umani siano originariamente bisessuali o, meglio ancora, pansessuali. Insomma, si impara ad essere uomini, si impara ad essere donne, si impara ad essere altro da ciò, anche e soprattutto a partire da come la cultura in cui viviamo ci insegna ad esserlo. Perciò un autore maschio che volesse scrivere una narrazione con protagonista una donna che racconta in prima persona, dovrebbe semplicemente riconnettersi con il suo lato femminile, aldilà degli schemi comportamentali di genere che ha assimilato nel suo percorso di vita. 

Facile, quindi falso. Anzi, impreciso, grossolano.

Un'immediatezza di questo tipo è puramente romantica: dubito che un individuo adulto che si ritenga eterosessuale possa compiere un salto simile affidandosi alla sola forza della sua immaginazione. Non saprei dire se per un omosessuale possa essere più facile o meno e, considerata la complicatezza dell'argomento, preferisco evitarlo per ora.

Il nodo più grosso credo si trovi all'incrocio di questi tre fili: corpo, rappresentazione e desiderio.
Infatti credo non ci siano grossi problemi, per un maschio, nel descrivere i comportamenti di una femmina visti dal di fuori: perciò un personaggio femminile di cui si parla in terza persona, solo abbozzato sul piano psicologico, non si rivela un così ostico avversario. Si potrebbe uscire vincenti dalla tenzone in punta di penna, con il solo ausilio di una buona capacità di osservazione.

Il problema è che quello che io, scrivente maschio, conosco di una donna-fantasma-che-sta-per-diventare-il-mio-personaggio non può che essere un grumo di atteggiamenti e rappresentazioni, un collage di volti e gesti filtrati dalle convenzioni sociali che regolano l'ambiente in cui mi muovo e dove l'ho incontrata. Conoscerla più da vicino non basterebbe. Anche nell'intimità tra uomo e donna c'è una grammatica, una convenzionalità dettata dalla cultura: il fatto che ce ne si dimentichi, in quei momenti, non significa che non ci sia: è iscritta nei nostri corpi, scolpita nelle nostre anse e curve - i sospiri e i baci son la punteggiatura.
Certo, in una situazione del genere, solitamente, si arriva a conoscere qualcosa di più di una rappresentazione: c'è di mezzo un contatto di corpi, un'intesa organica, vitale, che fugge da qualsiasi recinto concettuale; ma proprio per questo, tale sintonia è troppo idiosincratica, particolare, legata ad un momento irripetibile e volatile per diventare una forma raccontabile. O meglio, ad esser proprio bravi, si può arrivare ad esprimere quel singolare e assurdo contatto da un punto di vista poetico ed oggettivo, nel senso che si esula dalla propria soggettività per far parlare quei due corpi viventi e la loro energia. Qualcosa come uno sguardo estetico e libero che vede una bellezza pura. Ma qui si sta parlando di roba difficile e troppo vicina all'inumano.

E comunque non è ancora entrato in scena l'elemento più incasinante: il desiderio.

E cioè: il mio sguardo di uomo eterosessuale, quando è diretto verso una figura femminile, deve passare attraverso le lenti del desiderio - il disgusto è da intendersi come polo opposto di questa modalità di entrare in relazione con la realtà. Ciò non succede solo quando entra in contatto con una figura femminile, chiaramente: anche quando è diretto verso una torta alla panna, ad esempio. Possiamo immaginare un marziano che, poiché mangia solo pietre rosse, sia totalmente disinteressato alla torta di panna. Ecco, lui sarebbe l'individuo più indicato per descrivere le caratteristiche oggettive della torta alla panna, perché il suo giudizio non sarebbe distorto da moti pulsionali - se non quello della pura volontà di conoscere, forse, ma questa è un'altra storia ancora.
Infatti, il modo migliore per descrivere il comportamento di una donna x, potrebbe essere quello di cominciare a descrivere un soggetto reale verso il quale non si prova interesse di alcun tipo.
Potrebbe essere una buona palestra, tuttavia questo non è il nostro obiettivo: vogliamo che il protagonista del nostro racconto non sia una donna-dal-di-fuori, puramente descrittiva, ma una donna-dal-di-dentro, una narratrice appunto.

Allora come fare?
Per cominciare mi porrei questo quesito: come percepisce il suo corpo una donna? Come si rapporta con esso quando è in una situazione d'intimità, lontana dalla necessità di riprodurre una certa immagine di sé ad uso e consumo di altre persone?
Ricordo che anni fa scrissi un racconto di questo tipo, e cominciava con la protagonista che si faceva la doccia. Ma ho giocato sporco, perché trattavasi di una donna che odiava se stessa, il suo essere donna e in particolare il proprio corpo.
Ricordo invece, sempre anni fa, che una mia amica, alzandosi dal tavolo del pub, disse: "vado un attimo in bagno"; io dopo pochi secondi mi accorsi di avere il ben noto istinto fisiologico di mingere e la seguii, ma lei non se ne accorse. Entrai nell'anticamera del bagno e, con mio stupore, notai che non si era chiusa nella toilette delle signore, bensì stava lì, in quel limbo dei generi, vicinissima allo specchio sopra al lavandino e si contemplava con attenzione - ma non eccessiva vanità - il viso. Quando mi scorse, si girò imbarazzata e disse, uscendo rapidamente dalla porta: "volevo solo guardarmi un attimo".
Le sono molto grato, per avermi permesso - suo malgrado - di rubarle un secondo del suo volto di donna mentre si stava preparando alla recita sociale.
Quello che mi chiedo è: come guardano le donne quelle parti, quei pezzi del loro stesso corpo che lo sguardo maschile ha imparato a identificare, sezionare e mercificare come oggetto di desiderio sessuale?
Si tratta di un rapporto difficile da capire per un uomo, credo.
Per essere triviali più del dovuto durante un discorso che dovrebbe essere trattato con delicatezza: così come una donna difficilmente capirà cosa significa grattarsi le palle di prima mattina, così per un uomo è molto complesso cogliere la sensazione di familiarità che, forse, intercorre tra una donna e il suo seno quando, tornata a casa la sera, si slaccia finalmente il reggipetto.

La difficoltà sta nel fatto che la rappresentazione, ciò che viene mostrato o nascosto, è frutto di una preparazione - o comunque di una consapevole trascuratezza. Noi vediamo quasi sempre corpi trattati, sorretti, depilati, profumati, dipinti, truccati, tatuati, vestiti, mascherati. Più raramente vediamo persone che si accingono a prepararsi. La cura di sé è un luogo intimo, dove sopravvive il pudore, dove lo sguardo alieno viene schermato da pareti di mattoni, di tatto e buongusto.

Sarebbe quello il punto, se dovessi raccontare una storia con le parole di una donna, da cui partirei: il momento in cui una donna si "veste da donna" e indossa anche il proprio linguaggio femminile; perché anche il linguaggio, come l'immagine, esiste solo in quanto condiviso inter-soggettivamente, in quanto ottiene una certa risposta dall'ambiente.

Probabilmente l'effetto non sarebbe che una storia narrata da un uomo vestito da donna... ma sono curioso di tentare, prima o dopo questo mio esperimento di transessualità letteraria - e non letterale, ve lo assicuro.



Nessun commento:

Posta un commento

dilla